giovedì 14 aprile 2016

Clamoroso! Non sai cosa ti stanno nascondendo sulle trivelle!!1!!1! Per scoprirlo clikka qui!!1!!


Non voglio entrare nel dettaglio del referendum, delle sistematiche ragioni del sì e del no o dell'astensione. Tanto meno voglio parlare di ambientalismo (ho già dato), o di massimi sistemi. Ne approfitto però per parlare di tre principi di economia che mi sembra sfuggano e non sia affrontati nella maniera corretta anche nei post più estesi sulla faccenda, in particolare obiettando ad alcune ragioni dei propugnatori del sì, che cozzano contro elementari principi economici.

1-La prima obiezione: le royalties sono troppo basse, c'è la franchigia per cui sotto una certa quantità estratta le compagnie non pagano nulla, e inoltre tutte le royalties che pagano gli estrattori possono essere scontate fiscalmente, quindi di fatto stiamo regalando le nostre risorse ai petrolieri.

Una royalty è un diritto a ottenere un compenso per lo sfruttamento di qualcosa che di fatto è, o viene messo, nella pubblica disponibilità da parte di qualcun altro. Si presuppone dunque che lo Stato Italiano in qualche maniera abbia i diritti di sfruttamento esclusivo sulle risorse fossili che giacciono nel territorio nazionale, e che quindi debba concedere questo sfruttamento alle compagnie estrattive in cambio del pagamento di una royalty. Innanzitutto di per sé lo Stato non ricaverebbe nessun guadagno da tali giacimenti, perché non è suo compito, almeno se si sta parlando di economie di mercato, sfruttare e commercializzare gli idrocarburi. Insomma, la nazionalizzazione delle attività di estrazione non è all'ordine del giorno. Peraltro vi sono attività paragonabili sulle quali, seguendo lo stesso principio, dovrebbero essere imposte royalties alla stessa maniera, ad esempio la pesca. Gli idrocarburi nel sottosuolo non hanno nulla di differente da tutte le altre risorse naturali (in economia si usa il termine "natural capital") che quotidianamente le diverse attività economiche sfruttano. Ciò detto, nel caso specifico la royalty è assimilabile a un'imposizione fiscale, che si applica su una quantità fisica, ovvero le tonnellate estratte, in vece di una quantità economica, ovvero il fatturato, o meglio il profitto prima delle tasse.

Tralasciando però le questioni tecniche, e per andare al cuore del problema, conviene ai cittadini che lo Stato Italiano eserciti un'elevata imposizione fiscale su questa specifica attività economica? La risposta corta è no. La risposta lunga segue.

Non conviene, perché banalmente le imposizioni fiscali introducono per loro natura delle inefficienze di sistema, e delle perdite economiche secche. Le imposizioni fiscali su questa attività, se fossero ben proporzionate, dovrebbero semplicemente servire a coprire le esternalità, ovvero i costi che queste attività scaricano sulla collettività, e non avere a che fare con degli impulsi punitivi verso fantomatiche cattive lobbies.

In regime di concorrenza perfetta, le imprese lavorano con l'equazione P=MC, ovvero il prezzo eguaglia i costi marginali (costi totali comprensivi di costi finanziari del capitale). In queste condizioni si ha la massima efficienza economica, e il massimo vantaggio per il consumatore, ovvero noi cittadini. Per tornare alla domanda del paragrafo precedente, noi cittadini dovremmo votare per quei governi che fanno di tutto per portare l'economia a lavorare nelle condizioni di massima efficienza, ovvero in regime di concorrenza il più possibile perfetta. In questo modo trarremmo il massimo beneficio dalle attività economiche, pagando il minor prezzo possibile, determinato dal costo marginale in questo caso dell'estrazione (e raffinazione, trasporto...) di quel litro di benzina con il quale io rifornirò la mia automobile, o quel metro cubo di metano con il quale mi scalderò d'inverno. Tutto ciò che paghiamo in più, e che quindi ci sottrae ricchezza potenziale, è dovuto a imposizioni fiscali e deviazioni dalla concorrenza.

Per concludere, se lo Stato Italiano aumentasse le tasse, di fatto le compagnie non farebbero altro che trasferire parte di questa aumentata pressione fiscale su tutti noi, tramite un aumento dei prezzi. Un'altra parte dell'imposizione fiscale si trasforma in perdita secca economica perché le quantità estratte diminuirebbero per compensare l'aumento stesso dei prezzi, ma questi sono argomenti che, se interessano, chiunque può approfondire in qualsiasi corso che tratti i principi di base della microeconomia. Insomma le compagnie, al netto delle parti di monopolio, fanno il prezzo in base al costo marginale, e dunque aumentare il costo marginale tramite imposizioni fiscali, sotto forma di royalties o altro, non fa altro che aumentare il prezzo, dato che la quota relativa al monopolio parziale rimane costante.

2- La seconda obiezione è più veloce da smontare, e mi meraviglia che anche persone con una discreta capacità di raziocinio l'abbiano considerata come rilevante. In realtà è un'obiezione a un'obiezione. Il propugnatore del no al referendum, o dell'astensione, sostiene che la quota di idrocarburi che si perderebbe nel sospendere forzatamente le estrazioni dovrebbe essere compensata da maggiori importazioni dall'estero, che sono più costose e più inquinanti (le petroliere sono piuttosto inquinanti). Gli risponde il propugnatore del sì, sostenendo che in realtà la quota è talmente piccola in rapporto alla quantità totale consumata, che si può facilmente coprire con misure di riqualifica energetica.

Supponiamo con fantasia che la quota totale consumata sia 100, e che di questi 100, 3 sia il contributo domestico. 97 è dunque la quantità importata tramite tubazioni e via nave. Supponiamo anche che tramite misure di riqualificazione energetica si possa ridurre la quota consumata a 97, ma si mantengano attive le attività estrattive domestiche. La quota finale potrà essere composta da 3 di contributo domestico + 94 di importazione, ovvero avremo ridotto l'impatto delle importazioni, facendo per le ragioni dette un favore all'ambiente. Lo scenario opposto, qualora vincesse il sì, vedrebbe una quota di importazioni invariata e una quota domestica azzerata, e sarebbe uno scenario ambientalmente peggiore.

Inoltre, a fronte della vittoria del sì, poiché la decisione di aumentare le quote di importazione è neutra rispetto alla decisione di migliorare l'uso delle risorse energetiche, puntare a migliorare l'efficienza energetica delle nostre attività, che è un'ottima cosa, è totalmente non correlato alla questione in discussione. Una vittoria del sì non contribuisce in nessun modo a incentivare l'efficienza energetica.

3- Occorre fare una considerazione più generale sull'economia e la ricchezza delle nazioni.

L'attività estrattiva richiede enormi investimenti iniziali di individuazione e prospezione delle risorse, adempimenti burocratici, costruzione della struttura estrattiva, perforazione del pozzo...
Queste attività economiche sono state spese: sono un investimento. Il loro frutto contribuisce alla ricchezza della collettività, perché esso viene immesso sul mercato, e tramite uno libero scambio acquistato arricchendo sia chi lo vende sia chi lo compra (altrimenti lo scambio, banalmente, non avrebbe luogo).

Se vincesse il sì, tutte le risorse in termini di capitali finanziari o umani che sono state impiegate, sarebbero risorse "perdute", perché sono state spese. Non è più possibile impiegarle in altre attività che contribuiscono alla ricchezza della nazione, e il loro frutto è abbandonato.

Impedire che l'investimento venga sfruttato fino in fondo non impoverisce oscuri e perfidi overlords, ma impoverisce tutti noi. Sfruttare il giacimento il più possibile vuol dire migliorare le condizioni di vita di tutti noi.

P.S. Il titolo è un omaggio ai retorici delle trivelle, che saluto affettuosamente.

venerdì 1 aprile 2016

L'equivoco ambientalista

"It's the worst thing that could happen to our planet" - Jeremy Rifkin
Il duello fra ambientalisti e progressisti(?) infuria, in particolare in Italia e in questi giorni. Convivono il dibattito circa il quesito referendario sui rinnovi per l'estrazione di combustibile fossile con gli scontri, tra il cruento e il circense, tra vegani e Cruciani, con i primi che vorrebbero sopprimere tutti coloro che mangiano carne in nome della pietà e il rispetto per ogni forma di vita (intravedo una contraddizione), e l'ultimo che tenta l'esorcismo a colpi di salame.

Tornando però alla questione referendaria, chi voterà Sì, voterà per il divieto di rinnovare tutte le concessioni di estrazione a piattaforme già esistenti e funzionanti entro le 12 miglia dalla costa alla loro scadenza. Le ragioni per votare no, o non votare, mi paiono lapalissiane, per cui elencherò quelle stiracchiate (ma solo quelle pertinenti, e non i deliri) che producono i promotori del Sì;

  1. Votando sì si darebbe un "segnale" politico: l'approvvigionamento dei combustibili fossili deve finire il più velocemente possibile, perché il pianeta sta soffrendo ed è ormai già troppo tardi per rimediare, figuriamoci per rimandare ancora.
  2. La percentuale di fabbisogno interno di gas e petrolio coperta dall'estrazione è così bassa che è irragionevole continuare a rischiare un disastro ambientale quando se ne potrebbe facilmente fare a meno.
E' chiaro che entrambi i punti sono piuttosto semplici da contro-argomentare. Circa il primo sono sufficienti degli argomenti tecnologici, per così dire. Circa il secondo, basterebbe possedere quattro nozioni basilari di economia (risorse scarse, costo-opportunità...). Però è su questi argomenti che si annoda il dibattito politico, circa il referendum in questione, e più in generale su argomenti e contestazioni più disparate, ma sempre della stessa specie, si articola il dibattito pubblico sull'ambiente. 

Questo dibattito non mi appassiona, perché a mio parere rimane un equivoco in principio, ovvero: cosa vuol dire ambientalismo? In senso generale lo si potrebbe definire come quell'attivismo proprio di chi vuole migliorare l'ambiente in cui egli vive, sia quello prossimo che quello che potrebbe avere influenza sulla sua vita, e quindi in definitiva il pianeta. Alcuni discorsi ambientalisti possono essere già validi per orizzonti che vadano oltre il pianeta (ad esempio l'inquinamento da satelliti artificiali nella bassa orbita terrestre). Va sottolineato che in questa definizione rimane implicito, ma fondamentale, il rapporto, o la sfida, fra l'uomo e la natura (cit.). Il miglioramento dell'ambiente si intende in relazione alla funzione che esso ha per l'uomo, al contributo che l'ambiente può dare all'uomo e alla sua felicità. Questa è una posizione ambientalista del tutto razionale. 

In realtà però gli ambientalisti oggi, tutti coloro che sostengono posizioni irrazionali circa le scelte ambientaliste che la politica dovrebbe perseguire, non sono ambientalisti nel senso detto, ed è solo così che si spiegano le loro tesi contraddittorie. La citazione all'inizio del post di Rifkin si riferiva alla notizia di possibili passi avanti nella fusione nucleare fredda, una tecnologia che garantirà energia praticamente illimitata e pulita per l'uomo. Mentre per un umanista o progressista questa sarebbe una notizia meravigliosa, per gli ambientalisti che ci ritroviamo sarebbe un disastro. Essi non vogliono sostituire i combustibili fossili con le energie rinnovabili. Anelano invece a un pianeta popolato da una manciata di individui, possibilmente tutti della loro opinione, vegani, che vivano in maniera ascetica, che rinuncino a qualsiasi pretesa di dominio sulla natura, e piuttosto si facciano dominare da essa come nel paleolitico. Ogni progresso tecnologico è per loro una sconfitta, e di conseguenza ogni dibattito circa questi argomenti, condotto da tali distanti prospettive, obiettivi e valori, è sterile.

Voglio citare, a poca distanza dall'anniversario della sua nascita, uno dei più grandi, o forse il più grande, nella Storia dell'Umanità. Un ambientalista anch'egli, Norman Borlaug, premio Nobel per la pace nel 1970, e padre della Rivoluzione Verde. Questo personaggio straordinario ha lavorato prima in Messico, poi in India e Pakistan, e solo molto più tardi in alcune regioni dell'Africa, per migliorare drasticamente la produttività del frumento e di alcuni altri cereali. Ogni volta è riuscito, salvando vite umane nell'ordine del miliardo dalla fame e dalla morte per inedia. Lo cito in conclusione perché i suoi più agguerriti oppositori, quando tentò di esportare la sua rivoluzione verde in alcune regioni dell'Africa, furono proprio i movimenti ambientalisti. 

Per questi, che scrivono al caldo dalle loro belle scrivanie, sotto una luce artificiale, utilizzando spesso internet per alimentare le loro strampalate teorie, il fine è tornare al paleolitico, regredire fino allo stato selvaggio, del buon selvaggio, e curare il pianeta dall'infestazione umana (eppure pochi dànno il buon esempio). Chiarito questo equivoco, tutte le infinite e contorte discussioni che rimangono paiono rumore di fondo.