giovedì 14 aprile 2016

Clamoroso! Non sai cosa ti stanno nascondendo sulle trivelle!!1!!1! Per scoprirlo clikka qui!!1!!


Non voglio entrare nel dettaglio del referendum, delle sistematiche ragioni del sì e del no o dell'astensione. Tanto meno voglio parlare di ambientalismo (ho già dato), o di massimi sistemi. Ne approfitto però per parlare di tre principi di economia che mi sembra sfuggano e non sia affrontati nella maniera corretta anche nei post più estesi sulla faccenda, in particolare obiettando ad alcune ragioni dei propugnatori del sì, che cozzano contro elementari principi economici.

1-La prima obiezione: le royalties sono troppo basse, c'è la franchigia per cui sotto una certa quantità estratta le compagnie non pagano nulla, e inoltre tutte le royalties che pagano gli estrattori possono essere scontate fiscalmente, quindi di fatto stiamo regalando le nostre risorse ai petrolieri.

Una royalty è un diritto a ottenere un compenso per lo sfruttamento di qualcosa che di fatto è, o viene messo, nella pubblica disponibilità da parte di qualcun altro. Si presuppone dunque che lo Stato Italiano in qualche maniera abbia i diritti di sfruttamento esclusivo sulle risorse fossili che giacciono nel territorio nazionale, e che quindi debba concedere questo sfruttamento alle compagnie estrattive in cambio del pagamento di una royalty. Innanzitutto di per sé lo Stato non ricaverebbe nessun guadagno da tali giacimenti, perché non è suo compito, almeno se si sta parlando di economie di mercato, sfruttare e commercializzare gli idrocarburi. Insomma, la nazionalizzazione delle attività di estrazione non è all'ordine del giorno. Peraltro vi sono attività paragonabili sulle quali, seguendo lo stesso principio, dovrebbero essere imposte royalties alla stessa maniera, ad esempio la pesca. Gli idrocarburi nel sottosuolo non hanno nulla di differente da tutte le altre risorse naturali (in economia si usa il termine "natural capital") che quotidianamente le diverse attività economiche sfruttano. Ciò detto, nel caso specifico la royalty è assimilabile a un'imposizione fiscale, che si applica su una quantità fisica, ovvero le tonnellate estratte, in vece di una quantità economica, ovvero il fatturato, o meglio il profitto prima delle tasse.

Tralasciando però le questioni tecniche, e per andare al cuore del problema, conviene ai cittadini che lo Stato Italiano eserciti un'elevata imposizione fiscale su questa specifica attività economica? La risposta corta è no. La risposta lunga segue.

Non conviene, perché banalmente le imposizioni fiscali introducono per loro natura delle inefficienze di sistema, e delle perdite economiche secche. Le imposizioni fiscali su questa attività, se fossero ben proporzionate, dovrebbero semplicemente servire a coprire le esternalità, ovvero i costi che queste attività scaricano sulla collettività, e non avere a che fare con degli impulsi punitivi verso fantomatiche cattive lobbies.

In regime di concorrenza perfetta, le imprese lavorano con l'equazione P=MC, ovvero il prezzo eguaglia i costi marginali (costi totali comprensivi di costi finanziari del capitale). In queste condizioni si ha la massima efficienza economica, e il massimo vantaggio per il consumatore, ovvero noi cittadini. Per tornare alla domanda del paragrafo precedente, noi cittadini dovremmo votare per quei governi che fanno di tutto per portare l'economia a lavorare nelle condizioni di massima efficienza, ovvero in regime di concorrenza il più possibile perfetta. In questo modo trarremmo il massimo beneficio dalle attività economiche, pagando il minor prezzo possibile, determinato dal costo marginale in questo caso dell'estrazione (e raffinazione, trasporto...) di quel litro di benzina con il quale io rifornirò la mia automobile, o quel metro cubo di metano con il quale mi scalderò d'inverno. Tutto ciò che paghiamo in più, e che quindi ci sottrae ricchezza potenziale, è dovuto a imposizioni fiscali e deviazioni dalla concorrenza.

Per concludere, se lo Stato Italiano aumentasse le tasse, di fatto le compagnie non farebbero altro che trasferire parte di questa aumentata pressione fiscale su tutti noi, tramite un aumento dei prezzi. Un'altra parte dell'imposizione fiscale si trasforma in perdita secca economica perché le quantità estratte diminuirebbero per compensare l'aumento stesso dei prezzi, ma questi sono argomenti che, se interessano, chiunque può approfondire in qualsiasi corso che tratti i principi di base della microeconomia. Insomma le compagnie, al netto delle parti di monopolio, fanno il prezzo in base al costo marginale, e dunque aumentare il costo marginale tramite imposizioni fiscali, sotto forma di royalties o altro, non fa altro che aumentare il prezzo, dato che la quota relativa al monopolio parziale rimane costante.

2- La seconda obiezione è più veloce da smontare, e mi meraviglia che anche persone con una discreta capacità di raziocinio l'abbiano considerata come rilevante. In realtà è un'obiezione a un'obiezione. Il propugnatore del no al referendum, o dell'astensione, sostiene che la quota di idrocarburi che si perderebbe nel sospendere forzatamente le estrazioni dovrebbe essere compensata da maggiori importazioni dall'estero, che sono più costose e più inquinanti (le petroliere sono piuttosto inquinanti). Gli risponde il propugnatore del sì, sostenendo che in realtà la quota è talmente piccola in rapporto alla quantità totale consumata, che si può facilmente coprire con misure di riqualifica energetica.

Supponiamo con fantasia che la quota totale consumata sia 100, e che di questi 100, 3 sia il contributo domestico. 97 è dunque la quantità importata tramite tubazioni e via nave. Supponiamo anche che tramite misure di riqualificazione energetica si possa ridurre la quota consumata a 97, ma si mantengano attive le attività estrattive domestiche. La quota finale potrà essere composta da 3 di contributo domestico + 94 di importazione, ovvero avremo ridotto l'impatto delle importazioni, facendo per le ragioni dette un favore all'ambiente. Lo scenario opposto, qualora vincesse il sì, vedrebbe una quota di importazioni invariata e una quota domestica azzerata, e sarebbe uno scenario ambientalmente peggiore.

Inoltre, a fronte della vittoria del sì, poiché la decisione di aumentare le quote di importazione è neutra rispetto alla decisione di migliorare l'uso delle risorse energetiche, puntare a migliorare l'efficienza energetica delle nostre attività, che è un'ottima cosa, è totalmente non correlato alla questione in discussione. Una vittoria del sì non contribuisce in nessun modo a incentivare l'efficienza energetica.

3- Occorre fare una considerazione più generale sull'economia e la ricchezza delle nazioni.

L'attività estrattiva richiede enormi investimenti iniziali di individuazione e prospezione delle risorse, adempimenti burocratici, costruzione della struttura estrattiva, perforazione del pozzo...
Queste attività economiche sono state spese: sono un investimento. Il loro frutto contribuisce alla ricchezza della collettività, perché esso viene immesso sul mercato, e tramite uno libero scambio acquistato arricchendo sia chi lo vende sia chi lo compra (altrimenti lo scambio, banalmente, non avrebbe luogo).

Se vincesse il sì, tutte le risorse in termini di capitali finanziari o umani che sono state impiegate, sarebbero risorse "perdute", perché sono state spese. Non è più possibile impiegarle in altre attività che contribuiscono alla ricchezza della nazione, e il loro frutto è abbandonato.

Impedire che l'investimento venga sfruttato fino in fondo non impoverisce oscuri e perfidi overlords, ma impoverisce tutti noi. Sfruttare il giacimento il più possibile vuol dire migliorare le condizioni di vita di tutti noi.

P.S. Il titolo è un omaggio ai retorici delle trivelle, che saluto affettuosamente.

venerdì 1 aprile 2016

L'equivoco ambientalista

"It's the worst thing that could happen to our planet" - Jeremy Rifkin
Il duello fra ambientalisti e progressisti(?) infuria, in particolare in Italia e in questi giorni. Convivono il dibattito circa il quesito referendario sui rinnovi per l'estrazione di combustibile fossile con gli scontri, tra il cruento e il circense, tra vegani e Cruciani, con i primi che vorrebbero sopprimere tutti coloro che mangiano carne in nome della pietà e il rispetto per ogni forma di vita (intravedo una contraddizione), e l'ultimo che tenta l'esorcismo a colpi di salame.

Tornando però alla questione referendaria, chi voterà Sì, voterà per il divieto di rinnovare tutte le concessioni di estrazione a piattaforme già esistenti e funzionanti entro le 12 miglia dalla costa alla loro scadenza. Le ragioni per votare no, o non votare, mi paiono lapalissiane, per cui elencherò quelle stiracchiate (ma solo quelle pertinenti, e non i deliri) che producono i promotori del Sì;

  1. Votando sì si darebbe un "segnale" politico: l'approvvigionamento dei combustibili fossili deve finire il più velocemente possibile, perché il pianeta sta soffrendo ed è ormai già troppo tardi per rimediare, figuriamoci per rimandare ancora.
  2. La percentuale di fabbisogno interno di gas e petrolio coperta dall'estrazione è così bassa che è irragionevole continuare a rischiare un disastro ambientale quando se ne potrebbe facilmente fare a meno.
E' chiaro che entrambi i punti sono piuttosto semplici da contro-argomentare. Circa il primo sono sufficienti degli argomenti tecnologici, per così dire. Circa il secondo, basterebbe possedere quattro nozioni basilari di economia (risorse scarse, costo-opportunità...). Però è su questi argomenti che si annoda il dibattito politico, circa il referendum in questione, e più in generale su argomenti e contestazioni più disparate, ma sempre della stessa specie, si articola il dibattito pubblico sull'ambiente. 

Questo dibattito non mi appassiona, perché a mio parere rimane un equivoco in principio, ovvero: cosa vuol dire ambientalismo? In senso generale lo si potrebbe definire come quell'attivismo proprio di chi vuole migliorare l'ambiente in cui egli vive, sia quello prossimo che quello che potrebbe avere influenza sulla sua vita, e quindi in definitiva il pianeta. Alcuni discorsi ambientalisti possono essere già validi per orizzonti che vadano oltre il pianeta (ad esempio l'inquinamento da satelliti artificiali nella bassa orbita terrestre). Va sottolineato che in questa definizione rimane implicito, ma fondamentale, il rapporto, o la sfida, fra l'uomo e la natura (cit.). Il miglioramento dell'ambiente si intende in relazione alla funzione che esso ha per l'uomo, al contributo che l'ambiente può dare all'uomo e alla sua felicità. Questa è una posizione ambientalista del tutto razionale. 

In realtà però gli ambientalisti oggi, tutti coloro che sostengono posizioni irrazionali circa le scelte ambientaliste che la politica dovrebbe perseguire, non sono ambientalisti nel senso detto, ed è solo così che si spiegano le loro tesi contraddittorie. La citazione all'inizio del post di Rifkin si riferiva alla notizia di possibili passi avanti nella fusione nucleare fredda, una tecnologia che garantirà energia praticamente illimitata e pulita per l'uomo. Mentre per un umanista o progressista questa sarebbe una notizia meravigliosa, per gli ambientalisti che ci ritroviamo sarebbe un disastro. Essi non vogliono sostituire i combustibili fossili con le energie rinnovabili. Anelano invece a un pianeta popolato da una manciata di individui, possibilmente tutti della loro opinione, vegani, che vivano in maniera ascetica, che rinuncino a qualsiasi pretesa di dominio sulla natura, e piuttosto si facciano dominare da essa come nel paleolitico. Ogni progresso tecnologico è per loro una sconfitta, e di conseguenza ogni dibattito circa questi argomenti, condotto da tali distanti prospettive, obiettivi e valori, è sterile.

Voglio citare, a poca distanza dall'anniversario della sua nascita, uno dei più grandi, o forse il più grande, nella Storia dell'Umanità. Un ambientalista anch'egli, Norman Borlaug, premio Nobel per la pace nel 1970, e padre della Rivoluzione Verde. Questo personaggio straordinario ha lavorato prima in Messico, poi in India e Pakistan, e solo molto più tardi in alcune regioni dell'Africa, per migliorare drasticamente la produttività del frumento e di alcuni altri cereali. Ogni volta è riuscito, salvando vite umane nell'ordine del miliardo dalla fame e dalla morte per inedia. Lo cito in conclusione perché i suoi più agguerriti oppositori, quando tentò di esportare la sua rivoluzione verde in alcune regioni dell'Africa, furono proprio i movimenti ambientalisti. 

Per questi, che scrivono al caldo dalle loro belle scrivanie, sotto una luce artificiale, utilizzando spesso internet per alimentare le loro strampalate teorie, il fine è tornare al paleolitico, regredire fino allo stato selvaggio, del buon selvaggio, e curare il pianeta dall'infestazione umana (eppure pochi dànno il buon esempio). Chiarito questo equivoco, tutte le infinite e contorte discussioni che rimangono paiono rumore di fondo.

mercoledì 24 febbraio 2016

Le tasse come strumento di redistribuzione del reddito

"It is hard to imagine a more stupid or more dangerous way of making decisions than by putting those decisions in the hands of people who pay no price for being wrong."

La supposta crescente diseguaglianza, il divario sempre più ampio fra ricchi e poveri è un punto spesso sottolineato dai cosiddetti progressisti democratici o dai socialisti, insomma dai propugnatori dello Statalismo, per giustificare sempre nuove imposizioni fiscali che mirerebbero ad attenuare detta diseguaglianza, redistribuendo il reddito.

Al di là dell'idea stessa che lo Stato abbia come missione la riduzione delle diseguaglianze, ovvero l'imposizione di un egualitarismo senza condizioni, rimane il fatto che la maniera migliore di redistribuire la ricchezza è quella di prelevare ricchezza da alcuni e trasferirla direttamente ad altri. Ovvero, se davvero l'obiettivo è redistribuire ricchezza, perché non si agisce tramite un meccanismo di swap, ovvero di trasferimento di flussi di cassa? L'individuo in stato di bisogno beneficerebbe nella maniera che egli ritiene più opportuna della ricchezza acquisita, assecondando di volta in volta le sue necessità. Eppure il welfare non funziona mai così, ma è sempre collegato a qualche azione che i burocrati ritengono morale: l'affitto di una casa, la nascita di un figlio...

Dunque un altro livello di complessità si è aggiunto alla semplice redistribuzione del reddito, ovvero la promozione di qualche fine sociale. Quando però si esce dalla sfera individuale e si cerca di individuare dei fini collettivi, i pensieri diventano confusi e pericolosi. Questo perché a questo punto è necessario categorizzare gli individui in poveri o ricchi, famiglie o non famiglie, artigiani o non artigiani, anziani o non anziani, e così via. Il presupposto di fondo, che deve essere chiaro, è che lo Stato, ogni volta che promuove una qualche finalità sociale, ritiene i suoi cittadini non in grado di badare al proprio miglior interesse, e dunque si sostituisce a loro nella scelta.

E' certo vero che ci sono un numero di casi nei quali individualmente non disponiamo di tutte le informazioni per fare la scelta migliore ogni volta, ma, se anche io sia inetto nello scegliere per me stesso, come poi posso diventare atto e adatto a scegliere per altri, dei quali conosco poco o nulla se non una generica categorizzazione sociale, quando si tratta di votare per il partito politico A o B? Perché quando lo Stato indirizza le scelte individuali, è giustificato dal sottostante mandato democratico all'uso anche della violenza nel farlo. Dunque da una parte lo Statalista sostiene che, a causa dell'inettitudine individuale nello scegliere il meglio per sé, lo Stato è giustificato a sostituirsi nella scelta e indirizzarla; dall'altra parte lo Statalista deve accorgersi che sta sostenendo che lo stesso inetto che non è in grado di scegliere per sé, diviene improvvisamente saggio nello scegliere per degli sconosciuti, sia egli il burocrate o chi lo ha eletto.

Un altro punto ancora (traduco liberamente da qui): se anche io fossi incredibilmente incapace di agire nel mio miglior interesse, una verità fondamentale è che è mia responsabilità, e me stesso devo biasimare o lodare. A nessun altro devo nulla, né alcuno mi deve nulla. Nessuno dovrebbe avere il diritto morale di metter bocca sulle scelte che io faccio circa il mio benessere o la mia vita. Chiunque, credo, preferirebbe di gran lunga rovinarsi la vita per le proprie azioni che vedersela governata da altri alla stregua di un animale da soma. Perciò rimango sconcertato quando gli stessi che predicano lo Statalismo e l'Egualitarismo contemporaneamente manifestano perché vengano affermate alcune sacrosante libertà individuali (eutanasia, aborto, divorzio, diritto a una famiglia indipendentemente dall'orientamento sessuale...). Essi contemporaneamente affermano e negano il valore della libertà individuale.

venerdì 18 dicembre 2015

Otto buoni principi di economia e una piccola storia



  1. I prezzi di mercato non sono arbitrari;
  2. Anche in condizioni di mercato, i costi sono sostenuti non soltanto in forma monetaria;
  3. Non sono mai "aziende", "governi", "mercati" e "società" a scegliere o agire; tutte le scelte e le azioni sono effettuate da individui in carne e ossa; (il fatto che gli individui siano spesso, o persino tipicamente, influenzati nelle loro scelte e azioni dalle opinioni di altri non sminuisce questo punto);
  4. le persone reagiscono agli incentivi;
  5. Tutti gli scambi (di mercato) volontari beneficiano tutti coloro che vi partecipano;
  6. Grandi profitti guadagnati nei mercati sono la prova che le aziende che li realizzano stanno provvedendo a servizi di maggior valore per l'umanità rispetto alle aziende che realizzano profitti minori;
  7. Non c'è bisogno che la concorrenza sia perfetta (poiché perfetto è un aggettivo definito in maniera bizzarra nell'economia mainstream) al fine di essere intensa e grandemente efficace;
  8. Pressoché nessun essere umano è inabile a produrre e fornire qualcosa di valore in cambio di qualcos'altro prodotto da altri esseri umani.

aggiungo io un nono punto, che non è tanto un principio quanto una semplice definizione:

9. Il mercato è un luogo dove si incontrano coloro che domandano un bene e coloro che lo offrono. Questo libero incontro produce uno scambio e di conseguenza un determinato prezzo.

Questi otto principi hanno un gran valore, ritengo, nel giudicare una grandissima parte della realtà e delle dinamiche economiche, ma anche episodi pressoché insignificanti di tutti i giorni, che però trovano nuove prospettive se inseriti in questo contesto generale.

Qualche giorno fa tornavo verso il parcheggio dove avevo lasciato l'automobile, e mi soffermai a guardare la seguente scena: un'anziana signora pisana voleva riempire una bottiglia d'acqua a una fontanella pubblica. Dunque appoggiò le borse della spesa su una panchina nei pressi, prese la bottiglia vuota, s'avvicinò alla fontana, aprì il rubinetto, poi stappò la bottiglia, la riempì, non chiuse la fontanella, tornò verso la panchina, tappò la bottiglia, la ripose nella sporta della spesa, tornò poi alla fontanella e la chiuse. Ora è chiaro che una sequenza di azioni più efficiente (nel senso della riduzione dello spreco dell'acqua) sarebbe stata quella di aprire il rubinetto solo dopo aver pronta la bottiglia da riempire, chiuderlo prima d'aver richiuso la bottiglia, e successivamente ridirigersi alla panchina e riporre il tutto. 

4. Le persone reagiscono agli incentivi. La prima sequenza di azioni, che ha prodotto uno spreco, era evidentemente per la signora più comoda della seconda, che pure non avrebbe prodotto spreco d'acqua. Nella scelta realizzata in quel momento la prima sequenza di azioni aveva a suo favore più incentivi che la seconda.

1. I prezzi di mercato non sono arbitrari. Ci bombardano tutti i giorni con discorsi su quanto sia preziosa l'acqua potabile, e immagino debba esser vero. Se dunque l'acqua è così preziosa, come mai ne sprechiamo così tanta? L'acqua della fontana pubblica è "gratuita", nel senso che apparentemente non si paga per utilizzarla. In realtà essa costa in termini di mantenimento delle infrastrutture che servono a portarla dalla fonte all'utenza, renderla potabile e sicura eccetera. Si può tranquillamente assumere che queste infrastrutture abbiano un costo almeno in parte proporzionale alla quantità di acqua utilizzata, dunque si può associare a quella quantità di acqua sprecata un certo costo. Eppure, riprendendo le parole di Bastiat, ciò che si vede del prezzo è 0. Naturalmente tutti noi paghiamo per quello spreco con la fiscalità generale, o con altre forme di tassazione. In ogni caso, non essendo in condizioni di mercato, in questo caso il prezzo è arbitrario, ed è arbitrariamente fissato a 0 qualunque siano i costi marginali.

Dunque per impedire questo spreco, se si chiedesse a uno statalista, probabilmente la prima proposta che avanzerebbe sarebbe quella di emanare una legge che vieta lo spreco di acqua e commina le opportune sanzioni. Questo certo fornirebbe un certo incentivo all'anziana signora, ma solo nel caso in cui ci si trovasse nelle reali condizioni di poter far rispettare la legge. Si potrebbe dunque dotare ogni utenza di un apposito burocrate (vigile, insomma) che controlli e faccia rispettare la legge. La baracca ci costerebbe così tanto più di quanto risparmieremmo nello spreco, che nessuno sciroccato, per ora, ha mai proposto una cosa del genere.

Quale altra possibilità abbiamo? Se il mercato dell'acqua fosse libero, per definizione stessa, esso determinerebbe un prezzo tale da bilanciare il costo di erogazione del servizio. Sì, certo, probabilmente sarebbe un mercato poco competitivo, ma ci sono mille maniere per ovviare al prezzo monopolistico (incentive regulations, per esempio). Tornando ai principi, un prezzo di mercato non completamente arbitrario, ma almeno parzialmente determinato dalle condizioni e dai costi marginali, avrebbe probabilmente provveduto a un incentivo sufficiente per evitare quello spreco, contribuendo in questa maniera alla ricchezza di tutti (ridurre gli sprechi vuol dire investire le risorse nella produzione di ricchezza reale, ovvero servizi di reale valore - 6. Grandi profitti guadagnati nei mercati sono la prova che le aziende che li realizzano stanno provvedendo a servizi di maggior valore per l'umanità rispetto alle aziende che realizzano profitti minori)

Un'altra classica (ma anche ridicola) obiezione è quella della garanzia dei servizi essenziali anche per coloro che non potrebbero permetterseli a pagamento. Un classico esempio di redistribuzione del reddito. Tralasciando il dibattito sulla giustezza della redistribuzione forzosa della ricchezza come principio (8. Pressoché nessun essere umano è inabile a produrre e fornire qualcosa di valore in cambio di qualcos'altro prodotto da altri esseri umani.), rimane il fatto che, in questo caso, non si tratta nemmeno di quello: uno "stupido riccastro liberale" (cit.) ha lo stesso accesso di chiunque altro a quella stessa fonte, e magari la sua acqua gliel'ha pagata un povero sindacalista della FIOM.

Sullo stesso argomento mi torna in mente l'enorme polemica sulla questione delle prescrizioni delle prestazioni mediche (decreto sull'appropriatezza prescrittiva), ma si potrebbero citare mille altri casi. Purtroppo quando lo spreco non è immediatamente visibile, trascuriamo di considerarlo con il dovuto valore: se ordino 3 primi e 3 secondi al ristorante, e di questi mangio solo un piatto per portata, e gli altri due li butto, è semplice individuare lo spreco e valutarlo nella sua immoralità. Se invece mi faccio prescrivere un esame che si rivela inutile, lo spreco è forse ancora più costoso, ma non è immediatamente riconoscibile come tale. Immaginate tutte le risorse spese per l'acquisto di macchinari di diagnosi, e considerate che quelle enormi risorse potrebbero essere utilizzate per contribuire davvero efficacemente al miglioramento del servizio sanitario, o lasciate alla libertà di utilizzo dei privati cittadini (magari in quel momento qualcuno aveva bisogno di cambiare l'automobile, e invece con quella ricchezza è stato costretto a comprare ancora un altro tomografo computerizzato). Tutto ciò non avviene perché il prezzo di queste risorse costose è arbitrariamente fissato dallo Stato, che con l'altra mano lo estorce ai cittadini e lo paga.

Dunque il bel risultato di ciò che falsamente appare come gratuito (sanità, scuola, acqua...) è quello che, poiché non v'è alcun incentivo a non evitare lo spreco, questo avviene e in grandi quantità. E quando c'è spreco di risorse, stiamo tutti peggio, perché quelle risorse sprecate non contribuiscono alla ricchezza di nessuno.

Concludo con due suggerimenti:
1. allenatevi a vedere e riconoscere gli sprechi, i costi a loro associati, e ogni volta pensate che quella ricchezza bruciata fa stare un po' peggio tutti, i ricchi, ma soprattutto i poveri.
2. quando qualcuno vi dice che un servizio è gratuito, allertate il vostro senso critico, nella consapevolezza che tutto ha un costo, e più esso è nascosto e meno lo controlliamo.

mercoledì 14 ottobre 2015

Free market is "inspiring as well as right" (parte 2) - il prezzo.


continua da qui.

Se mi riesce, vorrei uscire dal seminato della microeconomia classica, per giustificare quell' "inspiring" e "right" che ho a buona ragione piazzato nel titolo. Mi spiego meglio: i discorsi economici di per sé suonano sempre poco "umani", talvolta perché gli economisti (o meglio di chi scrive di filosofia economica), perdendosi nei rivoli dei ragionamenti deduttivi, forse non sono sufficientemente abili nel comunicare quanto profonda ed esistenziale sia invece la sostanza del pensiero economico liberale.

L'economia ha sempre a che fare con la scarsità delle risorse. E' proprio questa che richiede uno studio della maniera migliore per la loro allocazione. Parto da qui perché una delle risorse scarse per eccellenza, e quella senza rimedio alcuno, è il tempo. Ciascuno di noi ha a disposizione 24 ore al giorno, non importa quanto sia ricco o povero. Ciascuno di noi ha poi a disposizione una vita di durata limitata, per il momento, e di nuovo per il momento un unico corpo (e mente) da sottoporre alle esperienze della vita stessa (mi viene in mente a proposito la "experience machine" di Nozick). Ne consegue che se anche tutte le altre risorse fossero limitate, dovremmo comunque condurre la nostra vita e conseguentemente le nostre scelte in presenza di risorse scarse, perché almeno il tempo non è mai illimitato.

Questa semplice considerazione, che è alla base della scienza economica, perché appunto riguarda le risorse scarse, ha un profondo carattere esistenziale. Mi affido qui all'iniziativa del lettore nel perseguire con completezza tutte le implicazioni di questo argomento, che soltanto per suggestione rievoca l'irriducibilità kierkegardiana dell'individuo, e l'esserCi o l'essere-per-la-morte di Heidegger. Al fine del papello in questione, in definitiva, ci basterà comprendere come la considerazione della scelta individuale di fronte alla scarsità del tempo introduca nel discorso il valore dell'esistenza stessa dell'individuo in quanto tale.

Abbiamo detto nel post precedente che la curva dell'offerta si costruisce a partire dall'analisi dei costi marginali per produrre un bene. Se ricordate inoltre, la curva dell'offerta è definita come la relazione che esiste fra la quantità di bene offerto e il suo prezzo. Abbiamo anche detto che in regime di mercato competitivo puro le aziende sono "price takers", perché non hanno capacità di influenzare il prezzo di mercato di beni commodities. Guardandola però dal lato dell'offerta, e quindi del produttore, che informazioni possiede il prezzo di mercato? In un altro post ho parlato di un'azienda come costituita da capitali + persone. Ebbene le persone, con il loro lavoro, trasformano un bene in ingresso in un bene in uscita di maggior valore. Il tempo che esse dedicano al lavoro, e sottraggono ad altre attività, accresce il valore di un bene (trasferisce valore aggiunto) aumentandone il prezzo. Se consideriamo tutta la catena produttiva, dall'estrazione della materia prima al prodotto finito, passo passo il prezzo di un bene contiene il "sacrificio esistenziale", per metterla in maniera drammatica, di tutti coloro che hanno lavorato per accrescere il valore di quel bene.

Ora consideriamo invece il lato della domanda. Abbiamo detto che la curva della domanda è la relazione che esiste fra la quantità domandata e il suo prezzo. Di nuovo, quando ciascuno di noi sceglie di acquistare un bene, ne valuta il valore misurandolo con il sacrificio che deve fare per ottenerlo, poiché dovrà pagare un corrispettivo (il suo prezzo) tramite potere d'acquisto conquistato tramite, appunto, sacrificio esistenziale.

Dunque, se si considera l'incontro quasi romantico fra domanda e offerta, quello determina il prezzo di mercato, che contiene in sé una sorta di patto esistenziale fra sacrifici non misurabili, o meglio non comparabili, altrimenti che con la libera determinazione del prezzo stesso (vedi di nuovo Rothbard nella sua "ricostruzione della teoria dell'utilità e dell'economia del benessere"). Ciascun individuo perciò valuta per se stesso quale sacrificio è disposto a compiere sotto una certa promessa di compensazione (nel marketing si parla di promise of value, o value proposition). E' una straordinaria informazione dunque, quella contenuta nel prezzo, che è indisponibile alla pianificazione dello Stato, e contiene in sé il sacrificio esistenziale di tutti i concorrenti al patto.

Credo si capisca dunque quanto non si possa dire di essere liberali se non si è liberisti, nel senso che il libero mercato è il fondamento dell'affermazione della libertà come valore assoluto.

Al di là dunque del carattere di efficienza dell'allocazione delle risorse insita nel libero mercato, e di ciò che abbiamo detto circa la capacità del prezzo di dirigere e allocare le risorse nella maniera più equa per tutte le parti (e qui si può leggere per esempio Russell Roberts), ancor di più, poiché garantisce la giustezza del patto esistenziale detto, il libero mercato è "inspiring as well as right".

P.s. non riesco a trattare questi meravigliosi argomenti con la sistematicità dovuta, e numerosi autori hanno scritto cose magnifiche circa molti degli aspetti qui soltanto accennati. D'altronde, come detto, il tempo è una risorsa limitata!


mercoledì 9 settembre 2015

Free market "is inspiring as well as right" (parte 1) - la legge della domanda e dell'offerta

Non so esattamente come e in che occasione si affronti il tema del libero mercato a scuola, quello che posso ricordare è che, per quanto concerne l'economia, si fece un gran parlare di rivoluzioni industriali e di marxismo, ma poco d'altro. Per esempio non credo si affronti in maniera strutturata la pur famosa legge della domanda e dell'offerta, che invece viene lasciata alla vulgata classica che più c'è domanda, o meno c'è offerta, e più costa.

Però però quest'affermazione sbrigativa non fa giustizia a uno dei più equi arbitri dell'economia e dell'allocazione delle risorse, che è il prezzo e la sua genesi. Tanto non gli si fa giustizia, e tanto non si comprende quali effettivamente sono i meccanismi che regolano il libero mercato, che poi non ci capitano che avversari della famigerata mano invisibile, ed ecco che ci ritroviamo in un mercato tutt'altro che libero: pensate soltanto a quante quote, dazi, tariffari imposti e altre maniere di corrompere il prezzo di mercato ci siamo inventati, e che impediscono la libera contrattazione.

Insomma, volevo scrivere un pezzo sul valore etico del prezzo liberamente determinato, o per dirla altrimenti perorare la causa etica del libero mercato contro le spinte stataliste, dittatoriali, burocratofile, ispirato da alcune lezioni di Hayek sulla valore della conoscenza e la disponibilità di informazioni nel mercato, ma ho il sospetto che senza un'introduzione adeguata non si capirebbe granché, quindi senza far torto allo spirito didattico e didascalico, mi appropinquo.

Cominciando da qualche veloce definizione, la "domanda" è la relazione che esiste fra la quantità richiesta (di un bene) e il suo prezzo. La curva della domanda dipende dall'utilità marginale che ogni individuo ha per ogni successiva unità del bene offerto. La domanda di un bene è infine la somma delle domande individuali per ciascun bene. Caratteristicamente, la relazione fra prezzo e quantità è inversa: potremmo semplificare dicendo che è inversamente proporzionale. Dunque, al crescere del prezzo diminuisce la quantità richiesta. Fin qui banalità. Il perché invece la curva sia fatta in questa maniera risiede nella cosiddetta teoria dell'utilità marginale. Si suppone, per farla semplice, che io sia disposto a pagare una certa cifra per una mela, meno del doppio per due mele, ancora meno per la terza mela e così via. Ovvero l'utilità individuale per ogni unità aggiuntiva decresce sempre. Secondo questo ragionamento si può costruire una curva della domanda individuale di mele, ad esempio per la prima mela io sarò disposto a pagare 10, ma due mele al massimo 18, tre mele 24 e così via, così che il prezzo unitario decresce al crescere della quantità.

L'offerta, inoltre, è la relazione che esiste fra la quantità offerta (di un bene) e il suo prezzo. La curva dell'offerta dipende invece dal costo marginale - ovvero il costo per ogni singola aggiuntiva unità di bene, o quello che nella teoria della costificazione aziendale si chiama costo variabile - e, oltre un certo punto, la relazione fra quantità e prezzo è direttamente proporzionale, poiché i costi marginali di produzione crescono con il crescere della quantità prodotta. Dunque un'impresa produrrà un bene aggiuntivo solo se il prezzo per quel bene è pari o uguale al costo variabile economico dell'unità aggiuntiva. Ne consegue che più aumenta il prezzo del bene sul mercato, più unità di bene l'industria è disposta a produrre. La somma dei costi marginali di tutte le imprese del mercato detto genera la curva dell'offerta.

Non voglio andare troppo nel dettaglio su come si costruiscono queste curve, cosa peraltro piuttosto semplice da capire, perché, come si dovrebbe intuire dal titolo, il punto del post è un altro. Però questi semplici concetti servono anche a dimostrare, al di là dell'efficienza nell'allocazione delle risorse del libero mercato, anche l'incredibile equità del meccanismo che si auto-regola.

Nell'immagine che segue trovate un esempio casuale di come potrebbero apparire le curve di domanda e offerta, e il loro punto di incontro, che, effettivamente, determina il prezzo e la quantità scambiata del bene in oggetto (supponiamo sia fosforo).


Perché il punto di incontro delle due curve indica poi il prezzo di mercato e la quantità scambiata? Ragionando per assurdo, se il prezzo fosse più alto, diciamo 600$ per tonnellata, le industrie vorrebbero produrre circa 215 tonnellate di fosforo, mentre a quello stesso prezzo gli acquirenti sarebbero disposti ad acquistare soltanto 65 tonnellate. Rimarrebbero nei magazzini 150 tonnellate di fosforo invendute (un surplus di offerta), e gli offerenti sarebbero costretti ad abbassare il prezzo man mano per venderle, comunque mantenendo un surplus di invenduto (uno spreco e una diseconomia per l'impresa stessa). 

Al contrario, se il prezzo fosse più basso del prezzo di equilibrio, si genererebbe un deficit di produzione, e ci sarebbero ancora compratori disposti a pagare di più per accedere al bene. Questo stimolerebbe ulteriore offerta a prezzo più alto, perché il costo marginale delle quantità successive è coperto e i produttori continuerebbero a fare profitto economico. Dunque il prezzo tornerebbe al livello di equilibrio. 

Dunque quando i prezzi non sono fissati dal libero mercato competitivo, ma da un agente esterno, generano surplus di produzione oppure carenza di beni. Nel primo caso, pensate per esempio all'imposizione di un salario minimo (che è come imporre un prezzo minimo, dove l'offerta è chi cerca lavoro). Detta imposizione, se il salario è superiore al punto di equilibrio, genera un surplus di lavoratori rispetto alla domanda, ovvero disoccupazione. Gli occupati fortunati guadagneranno di più di quello che avrebbero guadagnato in condizioni di libero mercato, ma nessuno garantisce che essi saranno proprio i più bisognosi (in genere succede il contrario). Se invece è inferiore non ha effetti se non di introdurre qualche inefficienza di tipo burocratico (per esempio qualcuno che controlli che detti salari minimi siano rispettati).

Nel caso opposto, l'esempio classico è il price cap (ovvero il prezzo massimo). Un esempio famoso è quello del pane: se ne fisso il prezzo massimo per ragioni "umanitarie", ovvero perché tutti devono avere accesso al pane, ottengo l'effetto opposto. Infatti se il prezzo massimo è inferiore al prezzo di equilibrio i produttori di pane produrranno meno di quanto il mercato richiede (analogamente all'esempio del fosforo). Poiché però il prezzo è fissato per legge, nessun fornaio avrà incentivo a produrre di più, visto che ogni chilo aggiuntivo di pane dovrebbe essere venduto a meno di quello che è costato produrlo. Si avrà dunque una carenza di pane, e soltanto pochi riusciranno ad acquistarlo. Con tutta probabilità lo acquisterà proprio chi ha più mezzi economici per ottenerlo, farne incetta e successivamente rivenderlo a un prezzo più alto sul mercato nero, con il risultato di avere meno pane del voluto e a un prezzo più caro di quello che si otterrebbe con un libero mercato.

Queste distorsioni sono causate dal fatto che nessun burocrate è in grado di predeterminare un prezzo e una quantità equi per un bene, essendo per lui impossibile accedere a tutte le informazioni sulle condizioni di scelta individuale per l'acquisto del bene stesso. Ma su questo, che è poi l'argomento centrale, tornerò nel prossimo post.

Il grafico riportato sopra non deve essere certo considerato come immutabile, perché le curve della domanda e dell'offerta cambiano continuamente al variare delle condizioni al contorno.

Fattori che possono modificare la curva della domanda sono ad esempio mutate condizioni di reddito, la disponibilità di adeguati prodotti sostitutivi, le tasse sul reddito, l'aspettativa di reddito futura... Fattori che possono invece modificare la curva dell'offerta sono avanzamenti tecnologici, cambi di politica fiscale, aumentate disponibilità di capitale...

Tornando al caso del fosforo, esso viene usato nei fosfati per la concimazione. Il prezzo è salito molto perché man mano le risorse minerali stanno diminuendo. Supponiamo che questo abbia spostato la curva dell'offerta nella posizione della figura precedente. Le imprese sono in questo caso incentivate a cercare nuove tecnologie e nuovi giacimenti per ricavare fosforo (di converso contribuendo alla crescita economica, ma anche questo è un argomento interessante e altrettanto off-topic). Inoltre gli utilizzatori di fosfati saranno alla ricerca di prodotti sostitutivi soddisfacenti. I due sforzi combinati, quando hanno successo, spostano le curve della domanda e dell'offerta nella maniera seguente:


Nella figura vediamo che la scoperta di prodotti sostitutivi dei fosfati ha spostato la curva della domanda a sinistra e l'ha resa meno "price elastic", ovvero più ripida. Questo perché ora la quantità richiesta è diminuita, ma sono diminuite le possibilità di accedere convenientemente a prodotti sostitutivi (che sono già in uso), e di conseguenza anche grandi cambiamenti di prezzo non modificano di tanto la quantità richiesta, non potendo più sostituire facilmente l'ammanco di fosforo. Il prezzo e le quantità scambiate sono diminuite. 

Supponendo ora che i produttori abbiano trovato maniere più efficaci per cercare minerali ricchi di fosforo, o altre maniere di ottenerlo (ad esempio le ossa animali possono essere lavorate per ricavare fosforo), anche la curva dell'offerta si sposterà più in basso e a destra.


Si è raggiunto un nuovo equilibrio a una quantità più alta e a un prezzo più basso.

Chiaramente per i casi d'esempio si parla di mercati totalmente competitivi, dove il prodotto (il fosforo) non è differenziabile, ovvero è una commodity. In questi mercati i produttori sono "price taker", dunque non sono in grado in alcun modo di influenzare il prezzo. Vi sono altri mercati (competizione monopolistica) in cui una più o meno importante differenziazione consente agli offerenti una qualche capacità di imporre un prezzo diverso (più alto) dal prezzo di equilibrio di un tipico mercato competitivo, ma nei limiti della sostituibilità del prodotto offerto.

Quello che mi premeva sottolineare, per ora, di tutta questa filastrocca, è che gli spostamenti delle curve di domanda e offerta derivano da cambiamenti nelle utilità o nei costi marginali. Queste informazioni non sono note che a chi realizza la decisione (di comprare o di vendere), e al momento stesso della decisione, in una preferenza dimostrata (consiglio a tal proposito "Toward a Reconstruction of Utility and Welfare Economics" di Rothbard), e non è possibile per nessuno, tranne che per il mercato, possedere questa preziosa conoscenza. Al di là dunque dei meccanismi specifici e del modello sopra esposto, si può ricavare una lezione di senso più profondo, che non solo ci giustifica l'efficienza economica nell'allocazione delle risorse del libero mercato, ma ce lo rende, appunto "inspiring as well as right", così come Nozick definisce lo Stato minimo. [to be continued...]


martedì 14 luglio 2015

La scienza del Culto del Cargo: l'austerity in Grecia ha fallito?


Uno degli ineludibili riferimenti culturali che mi appartengono, e ai quali faccio spesso riferimento, è il "commencement address", ovvero il discorso di congratulazione ai neolaureati della Caltech, tenuto da Richard Feynman nel 1974.

Feynman, parlando del metodo scientifico, racconta velocemente il curioso fenomeno dei Culti Cargo:
In the South Seas there is a cargo cult of people. During the war they saw airplanes with lots of good materials, and they want the same thing to happen now. So they've arranged to make things like runways, to put fires along the sides of the runways, to make a wooden hut for a man to sit in, with two wooden pieces on his head to headphones and bars of bamboo sticking out like antennas--he's the controller--and they wait for the airplanes to land. They're doing everything right. The form is perfect. It looks exactly the way it looked before. But it doesn't work. No airplanes land. 
Nei Mari del Sud le popolazioni praticano un culto del cargo. Durante la guerra videro degli aeroplani scaricare ogni ben di Dio, e vorrebbero che la stessa cosa accadesse ora. Così hanno costruito cose come piste di atterraggio, fuochi di segnalazione lungo le piste, una capanna nella quale si siede un uomo, con due pezzi di legno a mo' di cuffie e due pezzi di bamboo che sporgono come antenne - sarebbe il controllore di volo - e aspettano che gli aerei atterrino. Fanno tutto nella maniera corretta. La forma è perfetta. Somiglia in tutto e per tutto a prima. Ma non funziona. Nessun aereo atterra.
 La fallacia dell'esperimento degli indigeni è riconducibile, in maniera sostanziale, alla fallacia logica del "post hoc ergo propter hoc" - dopo di questo, quindi a causa di questo. Poiché a seguito della costruzione delle infrastrutture arrivano gli aerei, e gli aerei portano ricchezza, basta riprodurre le piste per ottenere ricchezza.

Si individua una correlazione temporale fra due fatti, ad esempio la presunta austerity imposta alla Grecia dal 2009 in avanti, e la successiva mancata crescita economica greca, e si conclude che la rovina della Grecia è stata l'austerity.