venerdì 18 dicembre 2015

Otto buoni principi di economia e una piccola storia



  1. I prezzi di mercato non sono arbitrari;
  2. Anche in condizioni di mercato, i costi sono sostenuti non soltanto in forma monetaria;
  3. Non sono mai "aziende", "governi", "mercati" e "società" a scegliere o agire; tutte le scelte e le azioni sono effettuate da individui in carne e ossa; (il fatto che gli individui siano spesso, o persino tipicamente, influenzati nelle loro scelte e azioni dalle opinioni di altri non sminuisce questo punto);
  4. le persone reagiscono agli incentivi;
  5. Tutti gli scambi (di mercato) volontari beneficiano tutti coloro che vi partecipano;
  6. Grandi profitti guadagnati nei mercati sono la prova che le aziende che li realizzano stanno provvedendo a servizi di maggior valore per l'umanità rispetto alle aziende che realizzano profitti minori;
  7. Non c'è bisogno che la concorrenza sia perfetta (poiché perfetto è un aggettivo definito in maniera bizzarra nell'economia mainstream) al fine di essere intensa e grandemente efficace;
  8. Pressoché nessun essere umano è inabile a produrre e fornire qualcosa di valore in cambio di qualcos'altro prodotto da altri esseri umani.

aggiungo io un nono punto, che non è tanto un principio quanto una semplice definizione:

9. Il mercato è un luogo dove si incontrano coloro che domandano un bene e coloro che lo offrono. Questo libero incontro produce uno scambio e di conseguenza un determinato prezzo.

Questi otto principi hanno un gran valore, ritengo, nel giudicare una grandissima parte della realtà e delle dinamiche economiche, ma anche episodi pressoché insignificanti di tutti i giorni, che però trovano nuove prospettive se inseriti in questo contesto generale.

Qualche giorno fa tornavo verso il parcheggio dove avevo lasciato l'automobile, e mi soffermai a guardare la seguente scena: un'anziana signora pisana voleva riempire una bottiglia d'acqua a una fontanella pubblica. Dunque appoggiò le borse della spesa su una panchina nei pressi, prese la bottiglia vuota, s'avvicinò alla fontana, aprì il rubinetto, poi stappò la bottiglia, la riempì, non chiuse la fontanella, tornò verso la panchina, tappò la bottiglia, la ripose nella sporta della spesa, tornò poi alla fontanella e la chiuse. Ora è chiaro che una sequenza di azioni più efficiente (nel senso della riduzione dello spreco dell'acqua) sarebbe stata quella di aprire il rubinetto solo dopo aver pronta la bottiglia da riempire, chiuderlo prima d'aver richiuso la bottiglia, e successivamente ridirigersi alla panchina e riporre il tutto. 

4. Le persone reagiscono agli incentivi. La prima sequenza di azioni, che ha prodotto uno spreco, era evidentemente per la signora più comoda della seconda, che pure non avrebbe prodotto spreco d'acqua. Nella scelta realizzata in quel momento la prima sequenza di azioni aveva a suo favore più incentivi che la seconda.

1. I prezzi di mercato non sono arbitrari. Ci bombardano tutti i giorni con discorsi su quanto sia preziosa l'acqua potabile, e immagino debba esser vero. Se dunque l'acqua è così preziosa, come mai ne sprechiamo così tanta? L'acqua della fontana pubblica è "gratuita", nel senso che apparentemente non si paga per utilizzarla. In realtà essa costa in termini di mantenimento delle infrastrutture che servono a portarla dalla fonte all'utenza, renderla potabile e sicura eccetera. Si può tranquillamente assumere che queste infrastrutture abbiano un costo almeno in parte proporzionale alla quantità di acqua utilizzata, dunque si può associare a quella quantità di acqua sprecata un certo costo. Eppure, riprendendo le parole di Bastiat, ciò che si vede del prezzo è 0. Naturalmente tutti noi paghiamo per quello spreco con la fiscalità generale, o con altre forme di tassazione. In ogni caso, non essendo in condizioni di mercato, in questo caso il prezzo è arbitrario, ed è arbitrariamente fissato a 0 qualunque siano i costi marginali.

Dunque per impedire questo spreco, se si chiedesse a uno statalista, probabilmente la prima proposta che avanzerebbe sarebbe quella di emanare una legge che vieta lo spreco di acqua e commina le opportune sanzioni. Questo certo fornirebbe un certo incentivo all'anziana signora, ma solo nel caso in cui ci si trovasse nelle reali condizioni di poter far rispettare la legge. Si potrebbe dunque dotare ogni utenza di un apposito burocrate (vigile, insomma) che controlli e faccia rispettare la legge. La baracca ci costerebbe così tanto più di quanto risparmieremmo nello spreco, che nessuno sciroccato, per ora, ha mai proposto una cosa del genere.

Quale altra possibilità abbiamo? Se il mercato dell'acqua fosse libero, per definizione stessa, esso determinerebbe un prezzo tale da bilanciare il costo di erogazione del servizio. Sì, certo, probabilmente sarebbe un mercato poco competitivo, ma ci sono mille maniere per ovviare al prezzo monopolistico (incentive regulations, per esempio). Tornando ai principi, un prezzo di mercato non completamente arbitrario, ma almeno parzialmente determinato dalle condizioni e dai costi marginali, avrebbe probabilmente provveduto a un incentivo sufficiente per evitare quello spreco, contribuendo in questa maniera alla ricchezza di tutti (ridurre gli sprechi vuol dire investire le risorse nella produzione di ricchezza reale, ovvero servizi di reale valore - 6. Grandi profitti guadagnati nei mercati sono la prova che le aziende che li realizzano stanno provvedendo a servizi di maggior valore per l'umanità rispetto alle aziende che realizzano profitti minori)

Un'altra classica (ma anche ridicola) obiezione è quella della garanzia dei servizi essenziali anche per coloro che non potrebbero permetterseli a pagamento. Un classico esempio di redistribuzione del reddito. Tralasciando il dibattito sulla giustezza della redistribuzione forzosa della ricchezza come principio (8. Pressoché nessun essere umano è inabile a produrre e fornire qualcosa di valore in cambio di qualcos'altro prodotto da altri esseri umani.), rimane il fatto che, in questo caso, non si tratta nemmeno di quello: uno "stupido riccastro liberale" (cit.) ha lo stesso accesso di chiunque altro a quella stessa fonte, e magari la sua acqua gliel'ha pagata un povero sindacalista della FIOM.

Sullo stesso argomento mi torna in mente l'enorme polemica sulla questione delle prescrizioni delle prestazioni mediche (decreto sull'appropriatezza prescrittiva), ma si potrebbero citare mille altri casi. Purtroppo quando lo spreco non è immediatamente visibile, trascuriamo di considerarlo con il dovuto valore: se ordino 3 primi e 3 secondi al ristorante, e di questi mangio solo un piatto per portata, e gli altri due li butto, è semplice individuare lo spreco e valutarlo nella sua immoralità. Se invece mi faccio prescrivere un esame che si rivela inutile, lo spreco è forse ancora più costoso, ma non è immediatamente riconoscibile come tale. Immaginate tutte le risorse spese per l'acquisto di macchinari di diagnosi, e considerate che quelle enormi risorse potrebbero essere utilizzate per contribuire davvero efficacemente al miglioramento del servizio sanitario, o lasciate alla libertà di utilizzo dei privati cittadini (magari in quel momento qualcuno aveva bisogno di cambiare l'automobile, e invece con quella ricchezza è stato costretto a comprare ancora un altro tomografo computerizzato). Tutto ciò non avviene perché il prezzo di queste risorse costose è arbitrariamente fissato dallo Stato, che con l'altra mano lo estorce ai cittadini e lo paga.

Dunque il bel risultato di ciò che falsamente appare come gratuito (sanità, scuola, acqua...) è quello che, poiché non v'è alcun incentivo a non evitare lo spreco, questo avviene e in grandi quantità. E quando c'è spreco di risorse, stiamo tutti peggio, perché quelle risorse sprecate non contribuiscono alla ricchezza di nessuno.

Concludo con due suggerimenti:
1. allenatevi a vedere e riconoscere gli sprechi, i costi a loro associati, e ogni volta pensate che quella ricchezza bruciata fa stare un po' peggio tutti, i ricchi, ma soprattutto i poveri.
2. quando qualcuno vi dice che un servizio è gratuito, allertate il vostro senso critico, nella consapevolezza che tutto ha un costo, e più esso è nascosto e meno lo controlliamo.

mercoledì 14 ottobre 2015

Free market is "inspiring as well as right" (parte 2) - il prezzo.


continua da qui.

Se mi riesce, vorrei uscire dal seminato della microeconomia classica, per giustificare quell' "inspiring" e "right" che ho a buona ragione piazzato nel titolo. Mi spiego meglio: i discorsi economici di per sé suonano sempre poco "umani", talvolta perché gli economisti (o meglio di chi scrive di filosofia economica), perdendosi nei rivoli dei ragionamenti deduttivi, forse non sono sufficientemente abili nel comunicare quanto profonda ed esistenziale sia invece la sostanza del pensiero economico liberale.

L'economia ha sempre a che fare con la scarsità delle risorse. E' proprio questa che richiede uno studio della maniera migliore per la loro allocazione. Parto da qui perché una delle risorse scarse per eccellenza, e quella senza rimedio alcuno, è il tempo. Ciascuno di noi ha a disposizione 24 ore al giorno, non importa quanto sia ricco o povero. Ciascuno di noi ha poi a disposizione una vita di durata limitata, per il momento, e di nuovo per il momento un unico corpo (e mente) da sottoporre alle esperienze della vita stessa (mi viene in mente a proposito la "experience machine" di Nozick). Ne consegue che se anche tutte le altre risorse fossero limitate, dovremmo comunque condurre la nostra vita e conseguentemente le nostre scelte in presenza di risorse scarse, perché almeno il tempo non è mai illimitato.

Questa semplice considerazione, che è alla base della scienza economica, perché appunto riguarda le risorse scarse, ha un profondo carattere esistenziale. Mi affido qui all'iniziativa del lettore nel perseguire con completezza tutte le implicazioni di questo argomento, che soltanto per suggestione rievoca l'irriducibilità kierkegardiana dell'individuo, e l'esserCi o l'essere-per-la-morte di Heidegger. Al fine del papello in questione, in definitiva, ci basterà comprendere come la considerazione della scelta individuale di fronte alla scarsità del tempo introduca nel discorso il valore dell'esistenza stessa dell'individuo in quanto tale.

Abbiamo detto nel post precedente che la curva dell'offerta si costruisce a partire dall'analisi dei costi marginali per produrre un bene. Se ricordate inoltre, la curva dell'offerta è definita come la relazione che esiste fra la quantità di bene offerto e il suo prezzo. Abbiamo anche detto che in regime di mercato competitivo puro le aziende sono "price takers", perché non hanno capacità di influenzare il prezzo di mercato di beni commodities. Guardandola però dal lato dell'offerta, e quindi del produttore, che informazioni possiede il prezzo di mercato? In un altro post ho parlato di un'azienda come costituita da capitali + persone. Ebbene le persone, con il loro lavoro, trasformano un bene in ingresso in un bene in uscita di maggior valore. Il tempo che esse dedicano al lavoro, e sottraggono ad altre attività, accresce il valore di un bene (trasferisce valore aggiunto) aumentandone il prezzo. Se consideriamo tutta la catena produttiva, dall'estrazione della materia prima al prodotto finito, passo passo il prezzo di un bene contiene il "sacrificio esistenziale", per metterla in maniera drammatica, di tutti coloro che hanno lavorato per accrescere il valore di quel bene.

Ora consideriamo invece il lato della domanda. Abbiamo detto che la curva della domanda è la relazione che esiste fra la quantità domandata e il suo prezzo. Di nuovo, quando ciascuno di noi sceglie di acquistare un bene, ne valuta il valore misurandolo con il sacrificio che deve fare per ottenerlo, poiché dovrà pagare un corrispettivo (il suo prezzo) tramite potere d'acquisto conquistato tramite, appunto, sacrificio esistenziale.

Dunque, se si considera l'incontro quasi romantico fra domanda e offerta, quello determina il prezzo di mercato, che contiene in sé una sorta di patto esistenziale fra sacrifici non misurabili, o meglio non comparabili, altrimenti che con la libera determinazione del prezzo stesso (vedi di nuovo Rothbard nella sua "ricostruzione della teoria dell'utilità e dell'economia del benessere"). Ciascun individuo perciò valuta per se stesso quale sacrificio è disposto a compiere sotto una certa promessa di compensazione (nel marketing si parla di promise of value, o value proposition). E' una straordinaria informazione dunque, quella contenuta nel prezzo, che è indisponibile alla pianificazione dello Stato, e contiene in sé il sacrificio esistenziale di tutti i concorrenti al patto.

Credo si capisca dunque quanto non si possa dire di essere liberali se non si è liberisti, nel senso che il libero mercato è il fondamento dell'affermazione della libertà come valore assoluto.

Al di là dunque del carattere di efficienza dell'allocazione delle risorse insita nel libero mercato, e di ciò che abbiamo detto circa la capacità del prezzo di dirigere e allocare le risorse nella maniera più equa per tutte le parti (e qui si può leggere per esempio Russell Roberts), ancor di più, poiché garantisce la giustezza del patto esistenziale detto, il libero mercato è "inspiring as well as right".

P.s. non riesco a trattare questi meravigliosi argomenti con la sistematicità dovuta, e numerosi autori hanno scritto cose magnifiche circa molti degli aspetti qui soltanto accennati. D'altronde, come detto, il tempo è una risorsa limitata!


mercoledì 9 settembre 2015

Free market "is inspiring as well as right" (parte 1) - la legge della domanda e dell'offerta

Non so esattamente come e in che occasione si affronti il tema del libero mercato a scuola, quello che posso ricordare è che, per quanto concerne l'economia, si fece un gran parlare di rivoluzioni industriali e di marxismo, ma poco d'altro. Per esempio non credo si affronti in maniera strutturata la pur famosa legge della domanda e dell'offerta, che invece viene lasciata alla vulgata classica che più c'è domanda, o meno c'è offerta, e più costa.

Però però quest'affermazione sbrigativa non fa giustizia a uno dei più equi arbitri dell'economia e dell'allocazione delle risorse, che è il prezzo e la sua genesi. Tanto non gli si fa giustizia, e tanto non si comprende quali effettivamente sono i meccanismi che regolano il libero mercato, che poi non ci capitano che avversari della famigerata mano invisibile, ed ecco che ci ritroviamo in un mercato tutt'altro che libero: pensate soltanto a quante quote, dazi, tariffari imposti e altre maniere di corrompere il prezzo di mercato ci siamo inventati, e che impediscono la libera contrattazione.

Insomma, volevo scrivere un pezzo sul valore etico del prezzo liberamente determinato, o per dirla altrimenti perorare la causa etica del libero mercato contro le spinte stataliste, dittatoriali, burocratofile, ispirato da alcune lezioni di Hayek sulla valore della conoscenza e la disponibilità di informazioni nel mercato, ma ho il sospetto che senza un'introduzione adeguata non si capirebbe granché, quindi senza far torto allo spirito didattico e didascalico, mi appropinquo.

Cominciando da qualche veloce definizione, la "domanda" è la relazione che esiste fra la quantità richiesta (di un bene) e il suo prezzo. La curva della domanda dipende dall'utilità marginale che ogni individuo ha per ogni successiva unità del bene offerto. La domanda di un bene è infine la somma delle domande individuali per ciascun bene. Caratteristicamente, la relazione fra prezzo e quantità è inversa: potremmo semplificare dicendo che è inversamente proporzionale. Dunque, al crescere del prezzo diminuisce la quantità richiesta. Fin qui banalità. Il perché invece la curva sia fatta in questa maniera risiede nella cosiddetta teoria dell'utilità marginale. Si suppone, per farla semplice, che io sia disposto a pagare una certa cifra per una mela, meno del doppio per due mele, ancora meno per la terza mela e così via. Ovvero l'utilità individuale per ogni unità aggiuntiva decresce sempre. Secondo questo ragionamento si può costruire una curva della domanda individuale di mele, ad esempio per la prima mela io sarò disposto a pagare 10, ma due mele al massimo 18, tre mele 24 e così via, così che il prezzo unitario decresce al crescere della quantità.

L'offerta, inoltre, è la relazione che esiste fra la quantità offerta (di un bene) e il suo prezzo. La curva dell'offerta dipende invece dal costo marginale - ovvero il costo per ogni singola aggiuntiva unità di bene, o quello che nella teoria della costificazione aziendale si chiama costo variabile - e, oltre un certo punto, la relazione fra quantità e prezzo è direttamente proporzionale, poiché i costi marginali di produzione crescono con il crescere della quantità prodotta. Dunque un'impresa produrrà un bene aggiuntivo solo se il prezzo per quel bene è pari o uguale al costo variabile economico dell'unità aggiuntiva. Ne consegue che più aumenta il prezzo del bene sul mercato, più unità di bene l'industria è disposta a produrre. La somma dei costi marginali di tutte le imprese del mercato detto genera la curva dell'offerta.

Non voglio andare troppo nel dettaglio su come si costruiscono queste curve, cosa peraltro piuttosto semplice da capire, perché, come si dovrebbe intuire dal titolo, il punto del post è un altro. Però questi semplici concetti servono anche a dimostrare, al di là dell'efficienza nell'allocazione delle risorse del libero mercato, anche l'incredibile equità del meccanismo che si auto-regola.

Nell'immagine che segue trovate un esempio casuale di come potrebbero apparire le curve di domanda e offerta, e il loro punto di incontro, che, effettivamente, determina il prezzo e la quantità scambiata del bene in oggetto (supponiamo sia fosforo).


Perché il punto di incontro delle due curve indica poi il prezzo di mercato e la quantità scambiata? Ragionando per assurdo, se il prezzo fosse più alto, diciamo 600$ per tonnellata, le industrie vorrebbero produrre circa 215 tonnellate di fosforo, mentre a quello stesso prezzo gli acquirenti sarebbero disposti ad acquistare soltanto 65 tonnellate. Rimarrebbero nei magazzini 150 tonnellate di fosforo invendute (un surplus di offerta), e gli offerenti sarebbero costretti ad abbassare il prezzo man mano per venderle, comunque mantenendo un surplus di invenduto (uno spreco e una diseconomia per l'impresa stessa). 

Al contrario, se il prezzo fosse più basso del prezzo di equilibrio, si genererebbe un deficit di produzione, e ci sarebbero ancora compratori disposti a pagare di più per accedere al bene. Questo stimolerebbe ulteriore offerta a prezzo più alto, perché il costo marginale delle quantità successive è coperto e i produttori continuerebbero a fare profitto economico. Dunque il prezzo tornerebbe al livello di equilibrio. 

Dunque quando i prezzi non sono fissati dal libero mercato competitivo, ma da un agente esterno, generano surplus di produzione oppure carenza di beni. Nel primo caso, pensate per esempio all'imposizione di un salario minimo (che è come imporre un prezzo minimo, dove l'offerta è chi cerca lavoro). Detta imposizione, se il salario è superiore al punto di equilibrio, genera un surplus di lavoratori rispetto alla domanda, ovvero disoccupazione. Gli occupati fortunati guadagneranno di più di quello che avrebbero guadagnato in condizioni di libero mercato, ma nessuno garantisce che essi saranno proprio i più bisognosi (in genere succede il contrario). Se invece è inferiore non ha effetti se non di introdurre qualche inefficienza di tipo burocratico (per esempio qualcuno che controlli che detti salari minimi siano rispettati).

Nel caso opposto, l'esempio classico è il price cap (ovvero il prezzo massimo). Un esempio famoso è quello del pane: se ne fisso il prezzo massimo per ragioni "umanitarie", ovvero perché tutti devono avere accesso al pane, ottengo l'effetto opposto. Infatti se il prezzo massimo è inferiore al prezzo di equilibrio i produttori di pane produrranno meno di quanto il mercato richiede (analogamente all'esempio del fosforo). Poiché però il prezzo è fissato per legge, nessun fornaio avrà incentivo a produrre di più, visto che ogni chilo aggiuntivo di pane dovrebbe essere venduto a meno di quello che è costato produrlo. Si avrà dunque una carenza di pane, e soltanto pochi riusciranno ad acquistarlo. Con tutta probabilità lo acquisterà proprio chi ha più mezzi economici per ottenerlo, farne incetta e successivamente rivenderlo a un prezzo più alto sul mercato nero, con il risultato di avere meno pane del voluto e a un prezzo più caro di quello che si otterrebbe con un libero mercato.

Queste distorsioni sono causate dal fatto che nessun burocrate è in grado di predeterminare un prezzo e una quantità equi per un bene, essendo per lui impossibile accedere a tutte le informazioni sulle condizioni di scelta individuale per l'acquisto del bene stesso. Ma su questo, che è poi l'argomento centrale, tornerò nel prossimo post.

Il grafico riportato sopra non deve essere certo considerato come immutabile, perché le curve della domanda e dell'offerta cambiano continuamente al variare delle condizioni al contorno.

Fattori che possono modificare la curva della domanda sono ad esempio mutate condizioni di reddito, la disponibilità di adeguati prodotti sostitutivi, le tasse sul reddito, l'aspettativa di reddito futura... Fattori che possono invece modificare la curva dell'offerta sono avanzamenti tecnologici, cambi di politica fiscale, aumentate disponibilità di capitale...

Tornando al caso del fosforo, esso viene usato nei fosfati per la concimazione. Il prezzo è salito molto perché man mano le risorse minerali stanno diminuendo. Supponiamo che questo abbia spostato la curva dell'offerta nella posizione della figura precedente. Le imprese sono in questo caso incentivate a cercare nuove tecnologie e nuovi giacimenti per ricavare fosforo (di converso contribuendo alla crescita economica, ma anche questo è un argomento interessante e altrettanto off-topic). Inoltre gli utilizzatori di fosfati saranno alla ricerca di prodotti sostitutivi soddisfacenti. I due sforzi combinati, quando hanno successo, spostano le curve della domanda e dell'offerta nella maniera seguente:


Nella figura vediamo che la scoperta di prodotti sostitutivi dei fosfati ha spostato la curva della domanda a sinistra e l'ha resa meno "price elastic", ovvero più ripida. Questo perché ora la quantità richiesta è diminuita, ma sono diminuite le possibilità di accedere convenientemente a prodotti sostitutivi (che sono già in uso), e di conseguenza anche grandi cambiamenti di prezzo non modificano di tanto la quantità richiesta, non potendo più sostituire facilmente l'ammanco di fosforo. Il prezzo e le quantità scambiate sono diminuite. 

Supponendo ora che i produttori abbiano trovato maniere più efficaci per cercare minerali ricchi di fosforo, o altre maniere di ottenerlo (ad esempio le ossa animali possono essere lavorate per ricavare fosforo), anche la curva dell'offerta si sposterà più in basso e a destra.


Si è raggiunto un nuovo equilibrio a una quantità più alta e a un prezzo più basso.

Chiaramente per i casi d'esempio si parla di mercati totalmente competitivi, dove il prodotto (il fosforo) non è differenziabile, ovvero è una commodity. In questi mercati i produttori sono "price taker", dunque non sono in grado in alcun modo di influenzare il prezzo. Vi sono altri mercati (competizione monopolistica) in cui una più o meno importante differenziazione consente agli offerenti una qualche capacità di imporre un prezzo diverso (più alto) dal prezzo di equilibrio di un tipico mercato competitivo, ma nei limiti della sostituibilità del prodotto offerto.

Quello che mi premeva sottolineare, per ora, di tutta questa filastrocca, è che gli spostamenti delle curve di domanda e offerta derivano da cambiamenti nelle utilità o nei costi marginali. Queste informazioni non sono note che a chi realizza la decisione (di comprare o di vendere), e al momento stesso della decisione, in una preferenza dimostrata (consiglio a tal proposito "Toward a Reconstruction of Utility and Welfare Economics" di Rothbard), e non è possibile per nessuno, tranne che per il mercato, possedere questa preziosa conoscenza. Al di là dunque dei meccanismi specifici e del modello sopra esposto, si può ricavare una lezione di senso più profondo, che non solo ci giustifica l'efficienza economica nell'allocazione delle risorse del libero mercato, ma ce lo rende, appunto "inspiring as well as right", così come Nozick definisce lo Stato minimo. [to be continued...]


martedì 14 luglio 2015

La scienza del Culto del Cargo: l'austerity in Grecia ha fallito?


Uno degli ineludibili riferimenti culturali che mi appartengono, e ai quali faccio spesso riferimento, è il "commencement address", ovvero il discorso di congratulazione ai neolaureati della Caltech, tenuto da Richard Feynman nel 1974.

Feynman, parlando del metodo scientifico, racconta velocemente il curioso fenomeno dei Culti Cargo:
In the South Seas there is a cargo cult of people. During the war they saw airplanes with lots of good materials, and they want the same thing to happen now. So they've arranged to make things like runways, to put fires along the sides of the runways, to make a wooden hut for a man to sit in, with two wooden pieces on his head to headphones and bars of bamboo sticking out like antennas--he's the controller--and they wait for the airplanes to land. They're doing everything right. The form is perfect. It looks exactly the way it looked before. But it doesn't work. No airplanes land. 
Nei Mari del Sud le popolazioni praticano un culto del cargo. Durante la guerra videro degli aeroplani scaricare ogni ben di Dio, e vorrebbero che la stessa cosa accadesse ora. Così hanno costruito cose come piste di atterraggio, fuochi di segnalazione lungo le piste, una capanna nella quale si siede un uomo, con due pezzi di legno a mo' di cuffie e due pezzi di bamboo che sporgono come antenne - sarebbe il controllore di volo - e aspettano che gli aerei atterrino. Fanno tutto nella maniera corretta. La forma è perfetta. Somiglia in tutto e per tutto a prima. Ma non funziona. Nessun aereo atterra.
 La fallacia dell'esperimento degli indigeni è riconducibile, in maniera sostanziale, alla fallacia logica del "post hoc ergo propter hoc" - dopo di questo, quindi a causa di questo. Poiché a seguito della costruzione delle infrastrutture arrivano gli aerei, e gli aerei portano ricchezza, basta riprodurre le piste per ottenere ricchezza.

Si individua una correlazione temporale fra due fatti, ad esempio la presunta austerity imposta alla Grecia dal 2009 in avanti, e la successiva mancata crescita economica greca, e si conclude che la rovina della Grecia è stata l'austerity.

domenica 5 luglio 2015

Yet another post sulla Grecia


Gli argomenti sui quali scrivo in genere sono "laterali" all'attualità, nel senso che la cronaca, e le reazioni della mia cerchia di conoscenze alla stessa, mi suggeriscono delle sensazioni di conflitto, le quali si traducono poi nello stimolo ad approfondire il conflitto: capito il nocciolo della questione, che in genere riguarda un attrito fra gli accadimenti e il mio sistema di valori, ne scrivo poi sul blog. In alcuni casi ho le idee chiare immediatamente dopo aver classificato questo "conflitto", in altri casi devo approfondire alcune questioni sulle quali scopro di essere poco ferrato. In genere è un processo fruttuoso, che mi porta a letture inconsuete e produttive, ma immagino sia più o meno lo stesso per tutti quelli che hanno una vita intellettualmente attiva. La vanità di scrivere su un blog in fondo è un ottimo incentivo.

Tutta questa interessantissima premessa, e poi scrivo della Grecia? Avendo investito qualche minimo capitale in titoli - perlopiù bancari - la mia egoistissima attenzione fino a che non ho chiuso le posizioni in borsa si rivolgeva con fastidio alle bizze di Tsipras e Varoufakis, che si traducevano in imprevedibili sussulti dei mercati azionari e di converso del mio portafoglio. Dopo l'escalation però, e non avendo più interessi diretti in merito, m'è rimasto un senso di fastidio generale nel leggere del dibattito fra filo e xeno ellenici. Ecco che s'era innescato il meccanismo che mi porta a scrivere sul blog.

Poi, per scrivere sulla questione, mi son detto: bisognerà approfondire, e mi son messo a cercare dei dati oggettivi sulle performance economiche della Grecia, sullo stato economico e finanziario, e sulle riforme fatte. Bisognava verificassi la vulgata che afferma che l'austerity imposta dalla troika ha distrutto l'economia ellenica. Non ci sono riuscito. Mi è tornato in mente il fatto curioso che il data journalist è considerato uno specialista nel giornalismo, come se normalmente si potesse fare a meno dei dati. Non sono riuscito a trovare un articolo, un'analisi, con dei dati sistematici. Quando va bene si trovano delle articolesse che per sostenere un punto screenshottano qualche tabella e qualche grafico aggregato, che è spesso in palese contraddizione con qualche altra articolessa che sostiene il contrario, e via di seguito.

Per tagliare il capo al toro, fissiamo dunque alcuni ragionevoli punti:

  1. la spesa pubblica greca negli anni dell'euro e in quelli precedenti è stata eccessiva, generando un debito che è diventato insostenibile
  2. il sistema economico greco non è competitivo, tant'è che non cresce e non genera sufficiente ricchezza
  3. dire che le politiche della troika sono fallite utilizza la fallacia del post hoc ergo propter hoc: non sappiamo come sarebbero andate le cose altrimenti. Inoltre le politiche le ha attuate il governo greco liberamente eletto, e dunque ai greci rimane la responsabilità delle scelte fatte.
  4. Gli interessi sulle obbligazioni elleniche erano altissimi, e dunque chi ha prestato soldi sapeva benissimo a quali rischi andava incontro, ciò nonostante confidando nello scudo gentilmente messo a disposizione da noi contributori europei.

Tornando al nocciolo della questione, la causa del mio fastidio circa il dibattito attuale è questa: avevo di recente affrontato, dal punto di vista professionale, la questione della giusta remunerazione del capitale di fronte a un investimento. Partiamo dalle basi: le persone fanno scelte consapevoli in presenza di risorse limitate. Questo è un mantra, anzi IL mantra, dell'economia. Questa enunciazione peraltro include una certo valore morale, che è strettamente connesso al valore della libertà individuale e della proprietà privata.

Per esemplificare, e per arrivare al punto, questo si traduce nel concetto di costo opportunità: se ho un'ora da investire, e ho la possibilità di impiegarla nel fabbricare un oggetto A che mi porta a 100€ di profitto, o un oggetto B che mi porta a 120€ di profitto, e scelgo di fabbricare l'oggetto A, in termini contabili posso dire di aver guadagnato 100€, ma in termini economici ho perso 20€! Dunque avendo risorse limitate, farò la scelta consapevole di fabbricare piuttosto l'oggetto B.

Il punto è che c'è una dimensione morale nel rendimento atteso da un investimento e nel rischio associato. Quando un titolo di Stato rende così tanto, il rischio correlato deve essere reale. Se all'investimento si sottende un "tanto alla fine l'Europa interverrà", e il rischio percepito non corrisponde a quello pagato, ecco che il patto non funziona più, il mercato è corrotto, e la remunerazione è immorale. Fatemi essere ancora più esplicito: chi ha speculato sul debito greco guadagnandone interessi cospicui, di fatto con la complicità dei governi europei ha rubato ricchezza a noi cittadini europei, che siamo stati costretti a finanziare questo abominevole accordo fra speculatori e governi. Questo tipo di meccanismi, questo inquinamento del libero mercato, genera poi le storture che ci troviamo a fronteggiare, e il paradosso è che si addita il vituperato neoturboliberismo, quando la causa è esattamente opposta!

Inoltre non sta ai creditori impartire le linee guida per il governo del loro capitale: a loro sta esclusivamente la decisione se prestarlo alla Grecia o impiegarlo altrimenti. Il lavoro degli investitori è questo, il lavoro degli amministratori è amministrare il capitale per restituirlo con gli adeguati interessi. Il popolo greco ha scelto un governo, in maniera democratica. Sta a questo governo la responsabilità delle scelte, e non deve avere l'alibi di scaricare i suoi fallimenti su organismi esterni, come la troika, il fondo monetario, l'europa, o gli Dei. Dunque se gli investitori ritengono che non ci siano più le condizioni per prestare capitale alla Grecia, a fronte delle prospettive presentate dal nuovo governo greco, così sia.

Le conseguenze del default greco non saranno lievi: per rimanere nel nostro piccolo giardino noi italiani ci troveremo a pagare degli interessi sul debito molto più alti, che io spero fronteggeremo tagliando la spesa pubblica e non aumentando ulteriormente la pressione fiscale, ma so che sarà speranza vana. Il default greco genererà instabilità politica, spinte populiste anti-euro, ulteriori ostacoli alla crescita dell'eurozona e alla ripresa economica. Non ho nemmeno quell'ottimismo che fa sperare che si possano rivedere i meccanismi dell'Unione Europea, per far sì che si diventi davvero un player forte nell'economia di mercato.

Le conseguenze per la Grecia stessa saranno pesantissime. Senza capitali Tsipras non potrà più fare il capo-popolo e dovrà fare delle scelte difficilissime, che metteranno a rischio la tenuta stessa della democrazia in quell'area.

Ciò nonostante, è importante e giusto che la Grecia sia lasciata fallire, per ristabilire quel patto morale fra investitori e amministratori: a ogni remunerazione di capitale corrisponda il rischio adeguato che quel capitale possa essere perduto. E che chi amministra sia messo di fronte alle sue responsabilità senza alibi. Non è più il tempo dello statalismo, delle economie pianificate dalla politica. E' tempo che anche l'Europa si apra al mercato e, di conseguenza, alla libertà.

lunedì 22 giugno 2015

Qualche principio di economia aziendale

Si parla spessissimo, sui giornali, in televisione, al bar, di economia, di crisi, di desertificazione industriale, di "liberismo", eppure sarei disposto a scommettere che un gran numero di voi non è in grado di definire in maniera semplice cos'è un'azienda. Questo per una serie di motivi, il primo dei quali è la mancanza di cultura economica. Le scuole a riguardo non si impegnano a sufficienza. Eppure per molti studenti l'azienda sarà una parte fondamentale, e molto ingombrante, della vita: molto più della Divina Commedia!

Intendiamoci: non sono certo un esperto di economia aziendale, però mi son detto che male non fa parlare in maniera grossolana di pochi fondamentali concetti che chi è esperto in materia forse dà per assodati, e che invece sono utilissimi a valutare le principali dinamiche economiche e industriali che stanno dietro a certi accadimenti: la vendita o la chiusura di un'azienda, per esempio; e riflettere su certe approssimative affermazioni da talk show.

Un'azienda è un insieme di capitali e persone. L'azienda gestisce il capitale in accordo con la missione aziendale per accrescerne il valore, tramite il lavoro delle persone, e in maniera tale da poter remunerare gli azionisti (i prestatori di capitale), i lavoratori (i prestatori d'opera), e i servizi (le tasse e le imposte). Azienda = capitali + persone.

Un'azienda, che per missione aziendale vuole essere leader nella produzione e commercializzazione di attaccapanni rossi, tenterà di accrescere il proprio capitale principalmente attraverso la produzione e la vendita di attaccapanni rossi, anche se potrebbe farlo in maniere più remunerative, ad esempio utilizzando il capitale per speculare in borsa.

Quanto bisogna accrescere il capitale? Almeno tanto da poter remunerare in maniera "equa" gli azionisti, e possibilmente di più. Il capitale aziendale, abbiamo detto, è una parte imprescindibile dell'impresa. Senza di esso non ci sono impieghi, ovvero non esiste l'azienda. 

Il capitale è composto da due quote: quello di debito, contratto con le banche, e quello dei soci (l'equity). Entrambi vanno remunerati: un euro oggi vale più di un euro domani. Il capitale di debito va pagato con gli interessi; ai soci va riconosciuta una remunerazione di rischio. Più l'investimento è rischioso e più il rendimento del capitale investito deve essere elevato, altrimenti i capitali degli azionisti andranno su investimenti più convenienti.

Senza entrare nei dettagli finanziari, facciamo un esempio concreto e molto semplice: supponiamo che un'azienda impieghi un capitale totale di 100.000€, che serviranno per comprare i macchinari, approvvigionare le materie prime, pagare gli stipendi e così via. Supponiamo anche che questo capitale sia composto per 50.000€ di equity (ovvero capitale di rischio, quello degli azionisti) e per altri 50.000€ di debiti bancari, da restituire a un interesse dell'8%. Supponiamo inoltre che, in base al profilo di rischio aziendale, gli azionisti si aspettino un rendimento del 15%.

Bene, l'azienda investe questi soldi e riesce a produrre e vendere per un valore totale di 200.000€, a un costo totale di 180.000€ (quindi abbiamo già pagato investimenti, lavoratori, fornitori, utenze, affitti..) Questo vuol dire che alla fine dell'anno abbiamo fatto un utile (risultato operativo netto - EBIT) di 20.000€, e dobbiamo ancora pagare gli interessi alle banche, e le tasse. 50.000€ è il debito bancario. Se paghiamo solo gli interessi dobbiamo alle banche 4.000€. Ci rimangono 16.000€ sui quali paghiamo il 55% di imposte; pagati anche gli oneri fiscali ci rimangono 7200€.


Questa è un'azienda che fa utile. Molti di voi penseranno che è sufficiente questo per dire che è un'azienda "sana", economicamente sostenibile. E' davvero così? Supponiamo che il consiglio di amministrazione decida di distribuire tutto l'utile agli azionisti, ebbene essi riceveranno il 14.5% circa del loro capitale investito, come remunerazione. Non è abbastanza! Abbiamo detto che il profilo di rischio dello specifico investimento avrebbe richiesto il 15% di rendimento. Quindi non solo l'azienda non ha remunerato a sufficienza gli investitori, ma non ha nemmeno prodotto sufficiente valore aggiunto da poter reinvestire nell'azienda stessa. Questo produce due risultati:

  1. Gli investitori sposteranno il loro capitale su investimenti più convenienti o meno rischiosi
  2. L'azienda dovrà indebitarsi ulteriormente per finanziare nuovi investimenti, aumenterà ancora il suo profilo di rischio, e dovrà remunerare ancora di più il capitale di rischio.
Dobbiamo quindi remunerare gli investitori, e non abbiamo ancora fatto abbastanza. Dovremo anche portare a casa qualcosina in più che ci permetta di investire (in ricerca e sviluppo, nuovi prodotti, nuovi impianti....) senza indebitarci ulteriormente (indipendenza finanziaria), o chiedere ulteriori aumenti di capitale agli azionisti.

Fare utili è una condizione necessaria, ma non è sufficiente! E' anche utile notare che l'equilibrio fra capitale proprio (equity) e capitale di terzi (debiti con le banche) è importantissimo: il capitale proprio, in genere, costa molto di più degli oneri finanziari derivanti dai debiti, ma se ci si indebita troppo si aumenta il profilo di rischio dell'azienda. Il rapporto fra debiti e patrimonio netto, indice di indebitamento (Debt/Equity), è uno dei parametri con cui si valuta lo stato di salute di un'azienda.

Qualche tempo fa ascoltavo in tv un sindacalista lamentarsi della svendita, a suo modo di vedere, di Ansaldo Breda ai Giapponesi di Hitachi. Sosteneva fosse stata svalutata perché "aveva un sacco di commesse". Quanto spesso sentiamo che l'azienda tale è stata svenduta, e valeva molto di più semplicemente perché "faceva utili". A questo punto dovrebbe esser chiaro che queste valutazioni, fatte in questa maniera, sono insensate. Valutare il valore di un'azienda è difficilissimo, e il valore è generalmente correlato a una valutazione dello stato attuale (asset totali, quindi patrimonio immobiliare, macchinari, ma anche brand, know-how...), e della capacità futura di generare ricchezza (e qua siamo quasi nel campo della chiaroveggenza).

Le aziende si reggono su equilibri finanziari delicatissimi, e continuamente perturbati dalle condizioni del mercato (concorrenza, crisi economiche, eventi ambientali imprevedibili), e non possono prescindere dalla fiducia degli investitori. Il capitale costa, più dei debiti, perché un euro oggi vale molto di più di un euro domani.