mercoledì 24 febbraio 2016

Le tasse come strumento di redistribuzione del reddito

"It is hard to imagine a more stupid or more dangerous way of making decisions than by putting those decisions in the hands of people who pay no price for being wrong."

La supposta crescente diseguaglianza, il divario sempre più ampio fra ricchi e poveri è un punto spesso sottolineato dai cosiddetti progressisti democratici o dai socialisti, insomma dai propugnatori dello Statalismo, per giustificare sempre nuove imposizioni fiscali che mirerebbero ad attenuare detta diseguaglianza, redistribuendo il reddito.

Al di là dell'idea stessa che lo Stato abbia come missione la riduzione delle diseguaglianze, ovvero l'imposizione di un egualitarismo senza condizioni, rimane il fatto che la maniera migliore di redistribuire la ricchezza è quella di prelevare ricchezza da alcuni e trasferirla direttamente ad altri. Ovvero, se davvero l'obiettivo è redistribuire ricchezza, perché non si agisce tramite un meccanismo di swap, ovvero di trasferimento di flussi di cassa? L'individuo in stato di bisogno beneficerebbe nella maniera che egli ritiene più opportuna della ricchezza acquisita, assecondando di volta in volta le sue necessità. Eppure il welfare non funziona mai così, ma è sempre collegato a qualche azione che i burocrati ritengono morale: l'affitto di una casa, la nascita di un figlio...

Dunque un altro livello di complessità si è aggiunto alla semplice redistribuzione del reddito, ovvero la promozione di qualche fine sociale. Quando però si esce dalla sfera individuale e si cerca di individuare dei fini collettivi, i pensieri diventano confusi e pericolosi. Questo perché a questo punto è necessario categorizzare gli individui in poveri o ricchi, famiglie o non famiglie, artigiani o non artigiani, anziani o non anziani, e così via. Il presupposto di fondo, che deve essere chiaro, è che lo Stato, ogni volta che promuove una qualche finalità sociale, ritiene i suoi cittadini non in grado di badare al proprio miglior interesse, e dunque si sostituisce a loro nella scelta.

E' certo vero che ci sono un numero di casi nei quali individualmente non disponiamo di tutte le informazioni per fare la scelta migliore ogni volta, ma, se anche io sia inetto nello scegliere per me stesso, come poi posso diventare atto e adatto a scegliere per altri, dei quali conosco poco o nulla se non una generica categorizzazione sociale, quando si tratta di votare per il partito politico A o B? Perché quando lo Stato indirizza le scelte individuali, è giustificato dal sottostante mandato democratico all'uso anche della violenza nel farlo. Dunque da una parte lo Statalista sostiene che, a causa dell'inettitudine individuale nello scegliere il meglio per sé, lo Stato è giustificato a sostituirsi nella scelta e indirizzarla; dall'altra parte lo Statalista deve accorgersi che sta sostenendo che lo stesso inetto che non è in grado di scegliere per sé, diviene improvvisamente saggio nello scegliere per degli sconosciuti, sia egli il burocrate o chi lo ha eletto.

Un altro punto ancora (traduco liberamente da qui): se anche io fossi incredibilmente incapace di agire nel mio miglior interesse, una verità fondamentale è che è mia responsabilità, e me stesso devo biasimare o lodare. A nessun altro devo nulla, né alcuno mi deve nulla. Nessuno dovrebbe avere il diritto morale di metter bocca sulle scelte che io faccio circa il mio benessere o la mia vita. Chiunque, credo, preferirebbe di gran lunga rovinarsi la vita per le proprie azioni che vedersela governata da altri alla stregua di un animale da soma. Perciò rimango sconcertato quando gli stessi che predicano lo Statalismo e l'Egualitarismo contemporaneamente manifestano perché vengano affermate alcune sacrosante libertà individuali (eutanasia, aborto, divorzio, diritto a una famiglia indipendentemente dall'orientamento sessuale...). Essi contemporaneamente affermano e negano il valore della libertà individuale.