lunedì 30 agosto 2010

Sulla morale

Ogni giocatore di poker sa che, indipendentemente dalla sorte, egli deve giocare la sua partita seguendo un certo numero di norme generali. La sua bravura consiste nell'adattare questa normativa generale ai casi particolari, valutando le conseguenze delle sue azioni, sia sulla sua propria reputazione che sulla ricompensa che esse produrranno in termini di vincita o perdita di chips, e la reputazione degli avversari secondo razionalità. A me piace pensare alla morale esattamente in questi termini, come un canone di principî da temperare nella realtà sulla base di quanto detto.

Per lungo tempo si è ritenuto, e molti lo ritengono tuttora, che la morale, al contrario, avesse origini divine, e altrimenti non si potesse giustificare. Una considerazione piuttosto singolare, che spesso si è risolta, e si risolve, nell'ammonimento attraverso l'uso di una fantastica punizione o ricompensa ultraterrena, da incassarsi dopo la morte. Questo ammonimento ricorda quelli altrettanto straordinarî e inverosimili che ogni genitore usa per condurre la prole all'età della ragione evitando che essa combini danni irreparabili. La speranza di ogni genitore, dunque, è quella che essi rimangano credibili sufficientemente a lungo da permettere la dissuasione dalle azioni, dirò, malvagie, dei bimbi imbecilli, poiché a essi è difficile inculcare una ragione superiore che giustifichi il bene al di là dell'immediato vantaggio, il quale è sovente sopravvalutato.

Qualunque cosa ne dicano le teologie più raffinate, è esattamente questo il meccanismo che in particolare la Chiesa cattolica e l'Islam nelle sue varie forme hanno usato per irretire e dominare gli istinti popolari votati all'irrequietezza della contingenza. Tale dominio era esercitato al fine perlopiù di garantire la convivenza: i monarchi traevano grandissima parte della loro autorità dall'investitura divina, e le scomuniche somministrate dai vari papi in numerosissime circostanze - le ultime di questo genere furono le ben tre scomuniche che ricevette Vittorio Emanuele II re d'Italia - costituivano un grave vulnus alla regalità del sovrano e all'autorità della quale egli godeva presso il popolo.

Man mano però che lo spirito del tempo cambiava, e si sortiva dall'oscuro obnubilamento della fanciullezza per accostarsi alle scienze sperimentali, alla filosofia razionale, gli inferni e le eterne dannazioni, insieme con i paradisi di vergini o le visioni estatiche di ineffabile descrizione hanno perso di efficacia. Oggi, è molto difficile convincere le persone a ben comportarsi con questo tipo di argomenti, e coloro i quali sbandierano il demonio e le fiamme eterne di fronte all'immoralità vengono considerati alla meno peggio degli eccentrici, o piuttosto matti da legare. Bisogna dire a tal proposito che l'Islam è oggi più capace di utilizzare questi strumenti di convincimento, ma soltanto dove un odierno medioevo culturale è presente, e soltanto attraverso il costante indottrinamento dalla fanciullezza in avanti.

Il ritenere che la morale abbia origine ultraterrena possiede un altro terribile aspetto: la pretesa che il giudizio morale possa essere avulso da qualsiasi contingenza, e che si possa giudicare la moralità sulla base assoluta delle leggi divine. Addirittura, a questo proposito le grandi religioni monoteistiche e alcune altre fanno riferimento a specifici canoni dedotti da testi, cosiddetti sacri, scritti in genere secoli fa. Questo atteggiamento, che è chiaramente retrogrado perché ritiene che ci si debba comportare come era ritenuto corretto comportarsi nell'età del bronzo, o giù di lì, conduce a una illiberalità di fondo, poiché, banalmente, la libertà è una conquista intellettuale relativamente recente, ed essa era assai poco valutata dagli "antichi" ai quali i testi sacri fanno riferimento.

I fenomeni di immoralità diffusa che sono odiernamente presenti possono essere comunque ricondotti alla palese inefficacia del deterrente religioso nel governare i comportamenti individuali. Ormai quasi nessuno più teme i gironi danteschi, e costoro non hanno però altro riferimento morale al quale riferirsi, né trovano ulteriori deterrenti nella legge civile, la quale in numerosissimi casi fornisce un bilancio fra ricompensa ricavata dall'aver agito immoralmente e pena generata dall'aver violato le regole che è comunque positivo. Inoltre, tutti i comportamenti immorali non normati sono comunemente praticati, né si vede la ragione per la quale essi non debbano essere praticati, conducendo i soggetti dell'agire a null'altro che una immediata ricompensa.

Una chiara responsabilità in questa mancanza ce l'hanno tutti coloro che hanno agito moralmente perché hanno trovato la loro morale al di fuori dell'infantilismo religioso, e che però non si sono adoperati perché culturalmente tutto ciò fosse dalla comunità riconosciuto. La potenza di una morale laica deve essere ora chiara: essa è in questa vita, non possiede propaggini ultraterrene.

Ciascuno per sé desidera la felicità, anzi, dirò che deve desiderare la felicità. Come può l'agire morale garantirla è questione non semplice da chiarire, ma che si fonda sul principio della reputazione. Chiunque di noi possegga uno spirito ricco sarà familiare con la sensazione di piacevolezza che è provocata dal riconoscimento del proprio valore nei suoi simili. Dico nei suoi simili per una ragione: l'obiezione più comune che può essere fatta alla "predicazione" di un rigore morale contingente è quella che, detta in uno slogan, i furbi fanno strada. Ebbene però quello spirito elevato del quale si parlava che cura dovrebbe avere se, per ipotesi, una scimmia lo giudicasse poco colto perché il colore della sua biblioteca non le è gradito? La ricompensa deve essere giudicata nella soddisfazione intellettuale, ed essa può essere assai più grande che un'automobile di grossa cilindrata, o una posizione lavorativa di tipo dominante. Inoltre, la cura con la quale si dovrà guardare alla propria reputazione presso i propri simili dovrà essere chiaramente assai più pronunciata di quella con la quale si guarda alla propria reputazione presso coloro che giudicano secondo parametri pseudomorali derivati dalle ricompense materiali.

Il costante, quotidiano, rigore morale è un esercizio assai oneroso, soprattutto perché, come ho detto, è molto difficile valutarne le immediate ricadute. La reputazione è un oggetto complesso da fabbricare, e assai fragile. Esso può rompersi per un'inezia, dopo magari anni di lavoro. Ciò nonostante, soltanto questo esercizio può garantire una vita soddisfacente, poiché l'unico piacere duraturo del quale disponiamo è la stima dei nostri simili e la frequentazione di essi sulla base del reciproco riconoscimento di valore.

Abbandoniamo dunque la fanciullezza acritica, rifiutiamo la perniciosa morale d'origine divina, e dedichiamoci a coltivare quest'altra, che è fondata nel mondo, ed è, meravigliosamente, umana.

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