Ne ho già scritto quasi tre anni fa, e rileggendo mi verrebbe da riproporre la stessa storia narrativa di allora, il che dimostra, quantomeno, una certa solidità di carattere se non di argomentazioni. Fondamentalmente allora partivo da una preghiera, che ripropongo sotto forma di citazione da un notissimo libriccino per darmi un tono:
Intellectual honesty demands that, occasionally at least, we go out of our way to confront arguments opposed to our views.
Tutto ciò per dire questo: non aggrappatevi alla vostra idea della questione, che sarà sicuramente, ragionevolmente e fondatamente radicata, perché temete che vi si stia vendendo qualcosa di sostitutivo. Non sto parlando di questioni pratiche, di sprechi di Stato, di liberismo applicato. Tantomeno mi riferisco all'Italia odierna in particolare, o all'Europa, o a qualcos'altro di meglio. Vi sottopongo, di nuovo, un argomento di confronto che, sospetto, fortemente avversa la vostra idea del mondo. Inoltre mi tocca precisare che quando nel titolo scrivo "tasse", metto da parte il diritto tributario italiano e le noiosissime distinzioni tecniche fra tasse, imposte, tributi. Parlo di prelievo di ricchezza di un certo tipo: proverò a darne una definizione più interessante e per certi aspetti specifica più tardi.
Il discorso, nel 2012, proseguiva in maniera apparentemente erratica, tuttavia con questioni che si ritrovano puntualmente in più dotte e alte trattazioni sulla materia dello Stato e del diritto impositivo che è di sua pertinenza. In particolare fu difficile affrontare l'argomento lasciando fuori la questione stessa dello Stato. Ho sempre bene a mente la posizione anarchica sullo Stato, che vi propongo perché la teniate anche voi a mente:
al fine di mantenere il suo monopolio sull'uso della forza (ovvero contro la volontà di un singolo individuo) per il bene della collettività - e non è forse per questo che si giustifica la sua necessità? - lo Stato deve violare i diritti individuali e per questo è intrinsecamente immorale.
Sulla collettività ho accennato qualcosa in quel post, a dimostrare che il disordine dell'argomentazione fu solo apparente.
Per di più, la questione della necessità dello Stato e la collettività sono argomenti che sono stati tirati in ballo ieri indipendentemente da me (e immagino con tutta probabilità senza alcuna influenza di quello che avevo scritto allora) in una
chiacchierata fra amici. Alla stessa maniera allora scrivevo: "Delle tasse si può dire in definitiva che sono uno strumento di redistribuzione del reddito. Esse sono infatti un prelievo di ricchezza che un'organizzazione di persone a partecipazione obbligatoria impone ai suoi iscritti al fine di fornire una serie di servizi che, va da sé, coloro che potrebbero in ogni caso permetterseli pagano anche per coloro che non potrebbero permetterseli."
La stessa identica affermazione ha proposto uno dei partecipanti alla discussione, che in genere
sa il fatto suo, almeno finché non parla di fisica.
Vi dicevo della definizione: in particolare quello che ho quasi omesso (organizzazione a partecipazione obbligatoria) è che questo prelievo di ricchezza di cui si parla è, per sua essenza,
forzoso. Il tributo è "espressione dell'esercizio della potestà impositiva di un ente sovrano." La storia del tributo, dell'origine e di come esso si è evoluto nel tempo, è molto interessante. Ad esempio, nella Roma imperiale per lungo tempo il tributo non fu imposto ai cittadini romani, che partecipavano alla Res Publica in altri modi, più diretti se vogliamo, ma era espressione della sovranità di Roma sulle sue province.
La redistribuzione della ricchezza deve essere vista, dal punto di vista morale, come una generica individuazione
della virtù nel povero di una virtù della povertà, ovvero una punizione del ricco (immoralità della ricchezza). Qualcuno dice un bilanciamento artificiale delle disparità alla nascita, che suona quasi come una negazione del diritto all'eredità, o alla famiglia. Quest'ultima proposizione mi convince meno, perché quest'attività redistributiva si protrae durante tutta la vita dell'individuo; non si limita alla semplice parificazione delle condizioni sociali alla nascita: un individuo immeritevole avrà diritto, secondo questo principio, alla ricchezza degli altri indipendentemente dal fatto che gli sono state garantite le stesse possibilità di accesso alla ricchezza di un ricco e ha fallito, anche ripetutamente. Ripeto: sto ragionando in termini astratti. Se è vero che è impossibile nella pratica e in maniera pianificata garantire a tutti le stesse identiche possibilità, è anche vero che a volte anche un povero può imbattersi in un accesso alla ricchezza, che è indipendente dalla sua condizione contingente.
Si dice anche che le tasse servano a pagare i servizi. Quest'affermazione assegna ai tributi un carattere neutro, però è insoddisfacente: per usare un eufemismo non tutto il prelievo fiscale può essere giustificato colla corresponsione di un servizio, e invece per essere in questo caso con i piedi per terra, una minima parte del prelievo fiscale finanzia dei servizi. In ogni caso, questa fattispecie può essere ricondotta a quella precedente, ovvero anche i servizi di Stato sono una forma di redistribuzione del reddito, per le ragioni già dette. In conclusione, sotto quest'ottica, anche la neutralità di quest'affermazione si perde. In quanto forma di redistribuzione, vi è associato il carattere di virtù o vizio.
Inoltre le tasse possono regolare e indirizzare il mercato, che, per dirla in maniera più significativa, vuol dire indirizzare le scelte individuali. Imporre imposte diverse sugli ebook rispetto ai libri cartacei vuole favorire la sopravvivenza di una certa classe di individui che mercanteggiano nel mercato della carta, e per fare questo mira a orientare, in maniera coercitiva attenzione!, le scelte individuali sul mercato della carta.
Io però andrei oltre: non sono completamente convinto che le tasse per principio siano uno strumento di redistribuzione del reddito, o siano principalmente uno strumento di redistribuzione del reddito. Come ho detto, la redistribuzione implica un giudizio morale sulla virtù dei sudditi da parte dello Stato. Inoltre, quello che fa di una tassa una tassa è l'imposizione, e quello che fa di uno Stato uno Stato è la capacità impositiva. Dunque in via teorica, e lo dico nel senso dell'elettrone di Feynman [1], trovo molto più comodo identificare l'essenza stessa dello Stato (che è la possibilità di prevaricare in maniera etica il diritto individuale, ve la ricordate la posizione anarchica?) con le tasse (che sono, come detto, di natura impositiva). Ne consegue che esse diventano semplicemente l'affermazione della sovranità dello Stato sull'individuo, e perciò sono una misura del grado di sudditanza al sovrano di ciascuno di noi.
[1] - "The electron is a theory we use; it is so useful in understanding the way nature works that we can almost call it real."